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Abbandonati Sfogo del Cavaliere pugnalato: "Traditori di m...". L'ira incontenibile di Silvio

Il Rendiconto passa con 308 sì: maggioranza addio. Berlusconi arrabbiatissimo. Al Colle annuncia: voto sull'economia, poi lascia

Andrea Tempestini
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Lotta. Si dimena. Prova a resistere anche di fronte alla evidenza dei numeri. Poi, seduto di fronte al Capo dello Stato, dopo aver opposto ancora un strenua resistenza, Silvio Berlusconi crolla. Alla fine è costretto a pronunciare quella parola che gli procura l'orticaria: «Darò le dimissioni». Il presidente del Consiglio, a tre anni e mezzo esatti dall'inseriamento (l'8 maggio 2008), annuncia che rimetterà il suo mandato. Sipario. Ne dà notizia un comunicato del Quirinale diramato appena dopo la fine del vertice. L'addio è differito: Berlusconi «si dimetterà dopo l'approvazione della legge di stabilità». Poi, informa ancora il Colle, «si procederà alle consultazioni di rito». Il Berlusconi quater va archiviato nell'album istituzionale di Palazzo Chigi. Silvio idem. Silvio idem? Apparentemente il Cavaliere sembra al crepuscolo della sua carriera politica, accelerato dalla scissione del suo principale socio (Gianfranco Fini), dalle vicende giudiziarie, dal tradimento dei suoi fedelissimi. Di fatto Berlusconi, pur shoccato dagli ultimi accadimenti parlamentari, non sembra uno che sta togliendo il disturbo. Non ragiona o parla come se avesse un volo prenotato per le Bermuda ai primi di dicembre. Tutt'altro. Cede a Napolitano sul passo indietro, ma in cambio incassa l'ombrello quirinalizio per approvare senza intoppi la legge di stabilità. E ottiene la promessa che il Quirinale non benedirà ribaltoni ma terrà conto dell'indicazione berlusconiana. Silvio ha già chiarito a Napolitano qual è la sua unica opzione: «Il voto anticipato». «Decido io», è stata la risposta del Presidente della Repubblica. LA GIORNATA Mamma mia, che giornata: Berlusconi fa un ultimo, disperato tentativo di recuperare i dissidenti. È mattina. A Palazzo Grazioli riceve Stracquadanio e la Bertolini: pecorelle smarrite che rientrano nel gregge. Gli altri - Antonione, D'Ippolito, Pittelli, Carlucci - manco lo vogliono vedere. Rispondono al telefono, ma di persona no, non intendono incontrare il premier: la loro decisione è definitiva. Così la maggioranza si presenta a Montecitorio, per il voto sul Rendiconto generale dello Stato, in versione ridotta. All'ultima fiducia la coalizione contava 316 onorevoli. Quando entrano in aula sulla carta sono 311 (con il recupero in extremis di Milo). Alla fine Pdl, Lega e responsabili riescono a mettere insieme 307 voti (308 con Malgieri che non fa in tempo a votare). All'ultimissimo minuto mancano Stagno D'Alcontres,  Stradella, Buonfiglio. Silvio? Mette su un muso infinito. Prende appunti su un foglietto. Fa i conti. Ragioneria: dall'ultima volta sono mancati otti voti. «Sono dei traditori di merda!», urla incontrando i vertici della maggioranza nel suo ufficio a Montecitorio. Una roba intollerabile, peggio dell'addio di Fini: «Questa è gente che stava con me dal '94. Hanno avuto tutto da me. E adesso guarda cosa mi hanno fatto». È scosso. Gli ingrati. La coltellata. Le idi di marzo. Nella sua stanza alla Camera ci saranno trenta persone - ministri, dirigenti, alleati leghisti -, ognuno gli dice una cosa. Silvio è sotto shock: «Mi dimetto»; «Anzi no, vado avanti». È frastornato, ferito. Lascia la ressa di Montecitorio e torna a Palazzo Chigi, dove lo sta aspettando Letta. Nuovo vertice, stavolta in vista della visita al Quirinale: la maggioranza è andata in frantumi in un ramo del Parlamento, Napolitano vuole spiegazioni. Il Cavaliere prova a imbastire una difesa: «Alla Camera possiamo arrivare a quota 313, il voto di oggi (ieri, ndr) era marginale, con la fiducia avremmo avuto più voti, i deputati sono più motivati e responsabili», argomenta il premier. «Poi c'è il Senato, dove abbiamo una maggioranza solida». Insomma la situazione, cerca di edulcorare il Cavaliere, non è poi così compromessa. Argomentazioni deboli per il Quirinale: Napolitano invita il premier a testare di nuovo la maggioranza a Montecitorio e Berlusconi è costretto ad ammettere che «i numeri non ci sono» e che «la situazione economica è grave». "VOTIAMO A FEBBRAIO" Allora Silvio non può che cedere alle insistenze di Napolitano: dimissioni. «Ma ho avuto rassicurazioni dal Quirinale», rivela Berlusconi ai suoi, «dopo il mio governo si avvierà un percorso che ci porterà al voto anticipato. Non ci saranno altri esecutivi. Non possiamo bruciare Alfano e terze ipotesi alla Monti  non mi convincono». E le larghe intese «non esistono, non farò mai alleanze col Pd» . Silvio è lanciatissimo nella prospettiva elettorale, molto più dei suoi. Avrebbe già comprato spazi sulla cartellonistica 6x3, si ipotizzano date per le urne: il 26 febbraio. Il candidato? «Sarà Angelino», annuncia Berlusconi. Anche se, prima di decidere, misurerà fino all'ultimo il suo appeal tra gli elettori di centrodestra. Se risale nei consensi, il Cavaliere potrebbe riprovare lui: candidato premier per la sesta volta. Il problema non è soltanto convincere Napolitano a sciogliere le Camere, quanto imporre il voto anticipato al Pdl. Si moltiplicano, nel partito unico, le voci che dissentono dal capo. E ieri notte a Grazioli c'è stato un tesissimo vertice di maggioranza. Sono dubbiosi gli ex An, per esempio, con La Russa che considera «possibile» l'incarico a un nuovo premier. Ma pure gli scajoliani, contrari alla prospettiva elettorale a stretto giro: gli uomini vicini all'ex ministro starebbero addirittura pensando alla formazione di un gruppo autonomo. C'è molta perplessità anche nella Lega. Per non parlare dei fedelissimi, come Gianni Letta, che insistono perché la legislatura prosegua con un altro esecutivo diverso dall'attuale. «Mai!», si è ribellato Berlusconi, «andremo a votare». Ma i suoi, lo seguiranno?     di Salvatore Dama Guarda la gallery

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