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Parola di Giampiero Mughini Violenti peggio dei terroristi

Anche nel '68 si tiravano i sassi, ma oggi c'è solo una furia cieca e ottusa, senza futuro politico. Il loro dio è la libidine della distruzione

Lucia Esposito
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Adriano Sofri ha scritto in questi giorni su “Repubblica” che lui è stato uno di quelli che i sassi li tirava, nelle manifestazioni studentesche degli anni Sessanta sfociate nel cosidetto “Sessantotto”. E voleva dire, a ragione, che una cosa erano quei sassi e tutt'altra la furia belluina dei delinquenti di diritto comune che si sono esibiti sabato scorso a Roma. Appartengo alla stessa generazione politica e sentimentale di Sofri, e dunque confesso che i sassi li ho tirati anch'io nei miei vent'anni. Una volta a Parigi sul Boulevard Saint Michel, un tardo pomeriggio del maggio 1968, tre o quattro pietruzze che non avrebbero fatto del male a una mosca e finché i Crs non contrattaccarono a farci capire qual era il rapporto di forze reale e non psicotico tra noi studenti e le forze dell'ordine. Perché questo vorrei ricordare agli osceni pagliacci che in questi giorni si sono vantati di avere fatto la prova generale dell'assalto allo Stato borghese. Poveri idioti che non sanno di che cosa stanno parlando. A Parigi noi avevamo di fronte non gli stanchi e mal pagati poliziotti la cui età media era 47 anni, come è avvenuto sabato scorso. Avevamo di fronte truppe scelte che avevano imparato il mestiere nell'Algeria insorta. Gente che ci avrebbe fatto a pezzi se non fosse che il governo francese dell'epoca aveva dato ordini perentori di limitare l'uso della forza, e questo perché tra i manifestanti c'erano tutti i figli dei ministri. Ricordo l'espressione di disprezzo con cui ci guardava un tenentino dei Crs, uno che se avesse potuto ci avrebbe spazzato via con un solo schiocco delle dita. Fra noi studenti della Cité Universitaire c'era un matematico argentino - più grande di noi, un personaggio molto affascinante - che ci guardava anche lui un po' dall'alto in basso. Lui ne sapeva di scontri fra la polizia e gli studenti, altro che il “joli mai” a Parigi. Quando loro studenti argentini andavano in piazza si trovavano di fronte carri armati che sparavano ad alzo zero, altro che tenentini che li guardavano sprezzanti. chi minimizza E comunque Sofri minimizza il tempo della “Lotta continua” di cui è stato il leader carismatico. Non erano solo sassi. Uno come il giovane militante di Lc Maurizio Pedrazzini lo beccarono il 22 marzo 1972, meno di due mesi prima dell'omicidio di Luigi Calabresi mentre si aggirava armato di pistola nelle scale del palazzo milanese dove abitava il missino Franco Servello. Il 29 aprile di quello stesso 1972, la polizia intercetta a Roma altri due giovani militanti di Lc che stavano viaggiando su una Vespa. Erano attrezzati di un kit da guerriglieri mica male; una pistola con la matricola abrasa e completa di caricatore, 43 proiettili dello stesso calibro e una miccia di dieci metri per mina. Sia la pistola di Pedrazzini che quella del binomio Carlo Albonetti-Massimo Manisco, provenivano dall'arsenale di armi che Lc custodiva in un deposito torinese, arsenale descritto al dettaglio dal “pentito” Leonardo Marino e da cui proveniva la pistola che uccise Calabresi. E ancora. Una volta quelli di Lc diedero un assalto furibondo a una sede torinese non ricordo più se del Msi o della Cisnal. Non solo sassi. La polizia sparò, uno di Lc come Luigi Manconi venne ferito al gluteo e si diede latitante. Si diede latitante anche la figlia di Sergio Garavini, un sindacalista torinese dei tempi in cui il sindacato italiano era una forza vitale della società italiana. Sergio era mio amico, e sua figlia latitante la ospitai a lungo. Ma quanto all'assalto allo Stato borghese il peggio doveva ancora venire. Erano i primordi, gli esercizi di tiro, i primi gesti spettacolari delle varie formazioni terroriste (sto parlando del terrorismo di sinistra, perché quello “nero” è tutt'altra storia). E veniamo alla manifestazione romana del 12 marzo 1977, una manifestazione che presenta punti di raffronto con quella di sabato scorso. Anche in quella occasione una massa di gente assolutamente pacifica e entusiasta, 30-40mila persone che si misero in movimento da piazza della Repubblica poco prima delle 16. Parola d'ordine della manifestazione: “Libertà per Fabrizio Panzieri!”, ed era una parola d'ordine sbagliata perché, contrariamente a quello che io stesso avevo creduto, Panzieri c'era e certamente aveva sparato alla mattina in cui assassinarono a Roma uno studente greco di destra. Ma non è questo il punto. Il punto è che all'interno dei 30-40mila manifestanti “buoni” c'erano 500 protobrigatisi muniti di pistola. Vi ricordate quelli che nei cortei muovevano le tre dita nel segno dell'uso della pistola? Loro. Ed esattamente com'è avvenuto a Roma sabato, furono quei 500 a impadronirsi della manifestazione e a modellarne il significato. Comincirono a spare alle 16.30 all'altezza di piazza del Gesù e continuarono per quattro o cinque ore, dappertutto a Roma. Che in quell'occasione non ci sia scappato il morto è un miracolo. E comunque era una sorta di data di nascita del terrorismo armato di sinistra, una tragedia che in Italia sarebbe durata incomparabilmente più a lungo che non in altri paesi europei, una tragedia che sarebbe costata vite a centinaia. E finché quella storia finì, e lo Stato italiano seppe finirla senza troppi strazi alle regole istituzionali di una democrazia. E la gran parte dei terroristi di quegli anni sono adesso in libertà dopo avere espiato chi 15 e chi 20 di carcere, e questo perché sono uomini diversissimi dagli assassini che erano stati. Solo che di recente è cominciata un'altra storia e un'altra tragedia, il cui primo tempo sono stati gli scontri di Genova di dieci anni fa (scontri la cui entità simbolica venne aggravata dal comportamento cialtronesco della polizia che era entrata alla Diaz e che ebbe in custodia gli arrestati alla caserma di Bolzaneto). È venuta alla ribalta una nuova genìa di ribelli, gente del tutto estranea ai tracciati ideologici del Novecento, ragazzi spesso giovanissimi il cui solo dio è la libidine della distruzione, di uno sportello bancomat o di una statua della madonna. Delinquenti di diritto comune. È il tempo e l'apotesi di “Er Pelliccia”, il ventiquattrenne studente romano immortalato nell'atto di scaraventare un estintore, un gesto talmente furibondo che quasi gli fa perdere i pantaloni a renderlo degno di una sequenza dell' “Isola dei famosi”. Lui s'è difeso che quell'estintore lo aveva lanciato a fin di bene, per sedare le fiamme. Tanto che in Rete lo hanno definito “Er Pompiere”. In fatto di uso dell'estintore come arma, “Er Pompiere” è la versione trash del gesto che costò la vita a Genova al povero Carlo Giuliani. Una vita la cui perdita merita tutta la nostra commozione, e purché non si trasmuti quel suo gesto - di scaraventarsi a forza di estintore contro un ragazzo che aveva la sua età e che aveva il solo torto di indossare una divisa - come un gesto di “eroismo civile”, al punto da dedicargli non ricordo più se una sala della Camera o del Senato. Morte di Giuliani a parte, e speriamo che quella morte resti unica e anche se mi sembra difficile dato quel che in fatto di sfracassi si annuncia in Val di Susa o altrove, siamo semplicemente all'inveramento di una frase famosa. Che la storia la prima volta si manifesta come tragedia, la seconda come farsa. Siamo purtroppo al tempo di tipi alla maniera di “Er Pelliccia”. Vorrà dire che ce lo siamo meritati. di Giampiero Mughini

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