SenzaVergogna La verità sulla piazza violenta tutti tifavano per la furia cieca dei black bloc
Parlano gli incappucciati: "Eravamo in migliaia gli altri facevano il tifo. C'era un sessantenne dei Cobas che ci portava i sampietrini"
Avrà diciotto anni, forse diciannove. Non di più. T-shirt bianca, zainetto nero in spalla. E una pistola. Disegnata su uno striscione. Il cannone che punta diritto verso chi guarda. Potrebbe essere un liceale che ha marinato la scuola. Magari lo è. Come gli altri che stanno con lui. E tengono in alto il cartello, mentre lui parla e spiega perché «a volte c'è bisogno della violenza per far capire le cose». È sabato pomeriggio. Stanno sfilando nel corteo degli indignati. Prima che esploda la follia. Anche se la follia, qui, c'è già. Perfettamente integrata alla manifestazione. Accettata, tollerata, ignorata. Non siamo tra le bande nere dei black bloc. O tra gli antagonisti, birra, spinello e musica a palla, dei centri sociali. Sono ragazzi normali che sfilano tra altri ragazzi normali. Tra uomini e donne. Normali. «Il senso di questo manifesto», spiega, «è che noi nun ce crediamo più in uno Stato che continua a promettere e non ce dà mai un cazzo. A volte siamo arrivati a mostrarci violenti anche per difendere i nostri diritti. Noi non cerchiamo la violenza. Ma se questa viene, noi rispondiamo». Perché «a volte c'è bisogno della violenza per far capire le cose». Per carità, precisa, loro non sono per la violenza. La loro pistola è solo disegnata. «Ma numme fido». E numme fido è scritto sullo striscione. «È ora che le cose cambiano». Chi lo intervista gli ricorda che l'Italia ha vissuto stagioni terribili. Il terrorismo. Quando ragazzi come lui hanno presa in mano una pistola. Ed era vera. Lui fa cenno che sì, ha presente. Ma lui mica vuol fare il terrorista. Però sì, quell'arma puntata «è un simbolo, un monito che qua le cose devono cambià. E se non cambiano manifestando, cambieranno in un altro modo». Un «altro modo» dove tutto è legittimo. L'intervista è stata fatta da Libera.tv, una web tv vicina ai movimenti e al mondo della sinistra radicale e diretta da Jacopo Venier, ex deputato di Rifondazione comunista. «Dopo una discussione in redazione», spiega a Libero, «abbiamo deciso di pubblicarla sul sito. Perché credo sia importante che un fatto così non venga nascosto, non sia rimosso. Non può passare l'idea che si possono dire frasi di questo tipo. Nemmeno per scherzo». Venier è uno che di cortei ne ha fatti e visti a centinaia. «Ma una cosa così», confessa, «non l'avevo mai vista». Non tanto, non solo per le frasi dette dal ragazzo. O per quel logo inquietante. «Mi ha colpito che nessuno gli dicesse niente, che non scandalizzasse nessuno». Ed era la parte tranquilla del corteo, quella dei manifestanti “pacifici”. «Non ci può essere una rimozione rispetto a ragionamenti di questo tipo. Non ci può essere soprattutto in chi, come noi, sostiene le ragioni di quel movimento. È evidente che c'è un problema. C'è una violenza diffusa nella società. E anche, sì, nella sinistra. E bisogna parlarne». La violenza è o non è una pratica legittima? Sembrava, a sinistra, un problema risolto. Si scopre, da sabato, che non lo è. E non solo per le frange più estreme. La novità, forse, è proprio che non lo è tra la gente normale. Per bene. C'è poi un problema tutto intorno a quello che viene chiamato “movimento”. Nel mese precedente alla manifestazione le varie anime di questo mondo si erano riunite varie volte. E c'era stata un'aspra discussione. Sui contenuti dell'iniziativa e sulle forme, sulle «pratiche di lotta». Da una parte c'era l'ala “buonista”, rappresentata da Sel, che spingeva per un corteo più politico. Con rivendicazioni e forme politiche. Dall'altra quella dei centri sociali, delle aree più antagoniste, che chiedevano «pratiche di conflitto». Non spaccare le vetrine, ma almeno piantare tendere lungo i Fori Imperiali. Ha prevalso Sel. Accusata, dagli altri, di puntare a «fini elettorali». E perfino di aver promesso posti in Parlamento ad alcuni leader dei centri sociali. Il tutto ha scatenato - spiegano nel movimento - la rabbia dell'ala più antagonista. Ma soprattutto il distacco completo dalle frange più estreme. Quelle che ai tavoli non ci sono venuti e non ci verranno mai. E di cui si fatica sempre di più, nello stesso movimento, a definire i contorni. Cani sciolti, bravi o cattivi ragazzi. Gente per cui la violenza, disegnata o no, in certi casi è legittima. Si erano addestrati in Grecia, racconta un incappucciato trentenne a Repubblica: «Per un anno, una volta al mese», sono andati a imparare dai «compagni ateniesi». Lo chiamano «il master», quel corso in cui hanno imparato che «la guerriglia urbana è un'arte in cui vince l'organizzazione. Un anno fa, avevamo solo una gran voglia di sfasciare tutto. Ora sappiamo come sfasciare». Sono entrati in azione a Roma il 15 ottobre secondo una precisa strategia militare, «in grado di assicurare un volume di fuoco continuo» e una tattica fatta di diversivi per ingannare i reparti antisommossa. Con un obiettivo politico preciso: portare con sé anche gli indignati pacifici. Ci sono riusciti, racconta un quindicenne al Fatto quotidiano, perché «siamo diventati sempre di più. Due-tremila. Anche gente comune, che prima stava a guardare». Fra di loro «un pensionato dei Cobas, avrà avuto sessant'anni, riempiva le sporte di sampietrini e ce le portava in prima linea» e anche «un disabile che riempiva la carrozzina di sassi come una carriola, e ce li distribuiva». Un tentativo di insurrezione popolare, insomma, a cui anche il corteo “pacifico” ha dato il proprio contributo determinante. di Elisa Calessi