Silvio sbotta: "Maledetto Giulio"
Grana Tremonti. Prova a scusarsi: "Nessuna ragione politica". Ma da quando è iniziata la crisi il rapporto col Cav si è deteriorato
«Vai a quel paese, ora mi aspetto le tue dimissioni», raccontano che abbia sibilato il Cavaliere a Giulio Tremonti quando le fatali lucine del tabellone di Montecitorio dovevano ancora spegnersi. E poi via, tutti a chiudersi in una sala riservata per un vertice di governo che si trasforma in un processo pubblico al ministro dell'Economia, reo non solo di avere disertato il voto ma anche di averlo fatto sul bilancio dello Stato, materia di sua pertinenza. E che lui si difenda affermando che «dietro la mia assenza non c'è nessuna ragione politica» non aiuta granché. Il patatrac parlamentare di ieri potrà non essere la fine (al momento non si ipotizzano passi indietro), ma di certo segna un punto di non ritorno nei rapporti tra il presidente del consiglio ed il titolare di via XX settembre. Un rapporto che, al di là della facciata, è sempre stato burrascoso. Come dimenticare Berlusconi che, anno 2004, offre la testa di Tremonti a Fini mentre Bossi, all'epoca unico sponsor del ministro, è ricoverato in clinica? Nell'ultimo anno, però, c'è stato il salto di qualità da burrasca a uragano. Paradossalmente, finché c'era Fini i due erano stati buoni. Durante il biennio 2008-2010, il barometro Silvio-Giulio non ha quasi mai dato segni di impazzimento. Non che Tremonti e Berlusconi andassero d'accordo: il ministro, al solito, tagliava e accentrava, mentre il Cav sacramentava contro i suoi metodi meditando gesti estremi. Se lo scontro restava sottotraccia, era perché il presidente della Camera aveva già iniziato la propria rumorosissima opera di smarcamento: e quando hai il cofondatore del partito che un giorno sì e l'altro pure ti rompe l'anima con la questione morale, gli screzi con un ministro - ancorché di peso - passano in secondo piano. Accompagnato l'ex leader di An alla porta, però, lo scontro con Tremonti si è riacceso con gli interessi. Dopo Follini, dopo Casini e dopo Fini l'incarnazione del fuoco amico, agli occhi del Cav, è diventato il titolare dell'Economia. E negli ultimi dodici mesi le cose sono andate peggiorando. Col Cavaliere pronto a vedere la mano di Giulio una volta dietro le bizze dei leghisti e l'altra dietro i misteriosi sommovimenti della finanza internazionale. Spalleggiato dal consiglio dei ministri al gran completo (i membri del governo subiscono tagli lineari come se piovesse e non ce n'è uno che non abbia il dente avvelenato nei confronti di colui che tiene i cordoni della borsa), il premier studia le mosse del rivale con grande attenzione: «Dovrebbe dimettersi, ma con questa crisi non si può» è il ritornello. Quando va bene, perché quando va male dalle parti di Palazzo Grazioli si sente dire che Giulio «mi sputtana all'estero», che «va dicendo in giro che lui ci ha messo tre anni a dare credibilità internazionale all'Italia e che io avrei vanificato il suo lavoro in tre settimane» e che «combina pasticci». Ad alcuni poliziotti che, in primavera, protestano per i tagli alla sicurezza consiglierà di «sparare a Tremonti». Il braccio di ferro estivo sulla manovra è straziante: aumento dell'Iva, patrimoniale, pensioni. Non passa giorno senza che i due non arrivino a un passo dalla rottura. Anche Giulio ci mette del suo per far infuriare il «nonnetto» Silvio, come quando escono i cablo di Wikileaks dove il ministro si lagna con gli americani perché «su Gazprom siamo andati troppo in là». Oppure quando lui rinsalda assi più (Cei e Vaticano) o meno (Carroccio e poteri forti) trasversali. Oppure quando, a fronte di qualsivoglia tensione interna al governo, minaccia dimissioni che sa benissimo essere irricevibili. Oppure quando si fa beffe delle minacce di spacchettamenti ministeriali, cabine di regia, direttori e via commissariando. Oppure quando delude quanti sperano che, azzoppato dal caso Milanese, cambi registro e venga a più miti consigli. Fino a ieri. Fino all'assenza fatale di Tremonti e alla furia di Berlusconi: gli eterni litiganti Che, si parva licet, fanno venire in mente Giovannino Guareschi. Don Camillo: «Non ti rendi conto che, fra non molto, verremo cacciati via a calci - io dai miei e tu dai tuoi - e ci ritroveremo miserabili e strapelati a dover dormire sotto un ponte?». Peppone: «E cosa significa questo? Continueremo a litigare sotto il ponte». di Marco Gorra