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Se il Colle crea tensione ad arte

Napolitano durissimo contro la Lega ma è in ritardo rispetto alle ultime sparate di Bossi. A che servono le picconate?

Andrea Tempestini
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Giorgio Napolitano è il presidente della Repubblica italiana e anche ieri da Napoli, la sua città, ha fatto il suo mestiere. Lo ha fatto con una certa foga, se è consentito rilevarlo. E, diciamo così, con il suo durissimo intervento contro la Lega Nord, non ha contribuito a gettare acqua sul fuoco di una situazione politica già di suo piuttosto surriscaldata. Che cosa ha detto il capo dello Stato? Prima di tutto che «nella nostra Costituzione non c'è spazio per una via democratica alla secessione». Una constatazione, quasi un'ovvietà: è vero, è così, poco da aggiungere. Invece Napolitano ha aggiunto: «Non esiste un popolo padano». E anche qui, poco da eccepire: per essere popolo bisogna avere lingua e tradizioni comuni e quindi si può magari parlare di popolo veneto, di popolo sardo, di popolo padano no. Ma poi l'inquilino del Colle ha preso l'abbrivio: «Grottesco pensare a uno Stato lombardo-veneto che calchi la scena competendo con la Cina, l'India, il Brasile, gli Stati Uniti». Beh, forse due conti economici si potrebbero fare, ma non c'è tempo, perché Napolitano va oltre: «Si può strillare in un prato ma non si può cambiare il corso della storia», tuona, con evidente irrisione della ricorrenza leghista di Pontida, prima di evocare il carcere: «Nel ‘43, di fronte a un tentativo di organizzazione, magari armata, di un movimento separatista, lo Stato italiano non esitò a intervenire e si arrivò alla detenzione di un capo importante di quel movimento». E questa è storia, si dirà. E non c'è dubbio. Ed è la conclusione appassionata del discorso dell'uomo dell'istituzione che ha il dovere di tenere unito il Paese. E si può tranquillamente consentire con lui che «invocare la secessione è fuori dal mondo d'oggi». Tuttavia viene spontaneo chiedersi che bisogno c'era di usare toni tanto aspri e di sventolare le manette sotto il naso del leader di uno dei due partiti che compongono la maggioranza. Perché ora? Perché nel pieno delle turbolenze economiche e giudiziarie, contraddicendo quasi le parole pronunciate pochi giorni fa per incitare alla concordia nazionale e ricordare a tutti che un governo cade solo quando non ha una maggioranza in Parlamento? È cambiato qualcosa? Nell'animo del presidente hanno fatto breccia i ragionamenti vagamente golpisti più volte proposti da molti editorialisti di sinistra e in particolare da Eugenio Scalfari su Repubblica? Non vogliamo credere che Napolitano si sia lasciato tirare per la giacca e abbia deciso di favorire una fibrillazione che porti a un'implosione della maggioranza. Però dire che ieri ha contribuito a rasserenare gli animi sarebbe una forzatura. Anche perché il capo dello Stato ha pizzicato un'altra corda sensibile: quella della legge elettorale, per abolire la quale proprio ieri sono state depositate le firme da parte dei referendari. E pure qui,  il tocco non è stato proprio lieve: «Il sistema elettorale in vigore ha rotto il rapporto di fiducia tra elettore ed eletto», ha spiegato tranchant. Aggiungendo che la necessità di una nuova legge «è maturata già da un pezzo» ed esprimendo la sua preferenza per il sistema «proporzionale più o meno puro che creava un vincolo molto forte con l'eletto». «Ora», ha concluso, «pare che non sia più importante fare bene in Parlamento». E così anche deputati e senatori sono stati serviti di barba e capelli. Già, ieri a Napoli parlava Napolitano, ma a molti è parso di scorgere l'ombra di Francesco Cossiga e del suo piccone.    di Massimo de' Manzoni

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