E se tornassimo un Paese povero?
La crisi rischia di distruggere il benessere cui siamo abituati. Ne faranno le spese i figli, destinati a scendere nella scala sociale
La grande paura del Duemila è di ritornare poveri. È il timore nuovo che leggo negli occhi di molte persone. E che affiora sempre più spesso anche dalle loro parole, non appena si comincia ad accennare al futuro. Tanti genitori si chiedono quale sarà la vita che attende i loro figli. A volte m'imbatto in nonni angosciati da quanto potrà accadere ai nipoti. Sono pochi quelli che non si fanno domande. E sostengono di non provare nessuna di queste ansie. Li ascolto con un pizzico di invidia perché non hanno i dubbi che, al contrario, inseguono anche me. È questo il regalo del nostro difficile e torbido inizio degli anni Duemila. Prima una crisi finanziaria globale, poi la crisi economica che riduce molti redditi famigliari, la crescita dei disoccupati, l'obbligo di intaccare i risparmi, i bilanci di molte nazioni a rischio di fallimento. E infine il divampare della questione dei giovani: non trovano davvero lavoro o aspirano a un lavoro impossibile da conquistare? Nei decenni passati le cose non andavano così. Certe paure non avevano ragion d'essere. Me lo conferma la mia storia personale. E soprattutto quella della famiglia dove sono nato e cresciuto. Come leggerete in questo libro, mio padre Ernesto e mia madre Giovanna venivano da un'infanzia segnata dalla povertà. Quella di mio padre, poi, era stata marchiata da una condizione ben più dura: la miseria. Ma entrambi guardavano al futuro con fiducia. Ernesto aveva vissuto i primi vent'anni tra gli ultimi della scala sociale. Mangiando poco. Vestendo panni smessi da altri. Calzando scarpe di ripiego, ottenute grazie alla carità del parroco del paese. E soprattutto iniziando a lavorare da bambino. Quando venne arruolato dall'esercito e fu mandato al fronte nella prima guerra mondiale, era un ragazzo soldato che non aveva ancora 19 anni. Ma toccò il cielo con un dito. Si riteneva fortunato e in Poco o niente scoprirete il perché. Alla mia nascita, Ernesto e Giovanna avevano un lavoro in grado di mantenere se stessi e i figli. Lui era un operaio dello Stato, un guardafili delle Regie poste e telegrafi. Lei era diventata una modista e una pellicciaia provetta. Grazie al suo negozio, guadagnava più di mio padre. Ma anche Giovanna ha faticato tutti i santi giorni, sino alla vigilia di morire. Non si sono mai concessi alcun lusso. Non hanno mai posseduto un'automobile. Non sono mai andati in vacanza. Però hanno sempre avuto una certezza: tanto io che mia sorella avremmo vissuto un'esistenza migliore della loro. Una certezza che oggi molti genitori non possiedono più. Ernesto e Giovanna mi hanno fatto crescere senza obbligarmi ad affrontare nessuno dei sacrifici incontrati da entrambi. Mi hanno messo in mano libri che non avevano potuto leggere. Mi hanno aiutato a frequentare scuole che gli erano state negate. Mi hanno protetto con una generosità illimitata, ma avvisandomi che, da un certo momento in poi, avrei dovuto far conto sulle mie sole forze. Li ho sempre visti felici di potermi offrire una vita tutta diversa dalla loro. Mi incitavano ad approfittare del piccolo benessere conquistato anche per me. Dicevano: guarda che non capita a tutti la fortuna di studiare, devi cercare di meritarti il regalo che hai ricevuto, grazie ai nostri sacrifici. Quando sono entrato all'università, era il 1954 e avevo appena compiuto 19 anni, mio padre stentava a nascondere un orgoglio felice. Mi raccontò: alla tua età ero un soldato ignorante, arrivato appena alla quarta elementare, e stavo al fronte insieme a tanti altri militari uguali a me. Molti erano analfabeti, non sapevano neppure parlare l'italiano, si esprimevano unicamente nel dialetto dei loro paesi. Un piemontese e un siciliano potevano morire l'uno accanto all'altro, nella stessa trincea. Però non riuscivano a capirsi: erano come due stranieri arrivati da nazioni lontane. Soltanto gli ufficiali non erano così. Ma anche tra loro di laureati se ne trovavano pochi. Invece tu, caro Giampa, frequenti l'università. E io potrò vantarmi di avere un figlio dottore! Ernesto mi seguì, passo dopo passo, lungo tutto il percorso di studente universitario. In un taccuino segnava gli esami che avevo superato e il voto ottenuto. Mi resi conto che sapeva tutto del corso di studi al quale ero iscritto. Pur essendo un uomo mite e alieno dalla severità, non accettava la minima incertezza nell'affrontare un esame. Pretendeva che i miei voti fossero sempre alti. Se dopo una serie di trenta, portavo a casa un ventisette, lo scoprivo deluso. Non mi diceva nulla, però capivo che si era aspettato di più. Venne a Torino per assistere alla mia laurea in Scienze politiche, a Palazzo Campana, la sede delle facoltà umanistiche. Stava per compiere 61 anni ed era la prima volta che metteva piede in un santuario della cultura accademica, un operaio fra tanti professori e studenti. Si preoccupò molto nell'ascoltare il battibecco fra il relatore della mia tesi e il presidente della commissione di laurea. Era il magnifico rettore dell'ateneo, un vero barone, autoritario e stizzoso. Si lamentava delle troppe pagine che avevo scritto. Ma forse non gli garbava l'argomento: la guerra civile nella mia provincia, quella di Alessandria, fra Genova e il Po. Ernesto ebbe il timore che il fastidio del rettore potesse nuocere al mio voto di laurea. In seguito, mi confessò di essere stato tentato di andarsene per non trovarsi di fronte a un disastro. Però nella vita si era imbattuto in momenti molto peggiori e decise di restare sino alla fine della cerimonia, confuso tra il pubblico. Quando mi vide premiato con il massimo dei voti e la menzione della dignità di stampa, scappò via di corsa a prendere il treno e ritornò da solo nella nostra città, dove lo aspettava mia madre, assai più tranquilla di lui. Alla sera, quando ci ritrovammo a casa, mi abbracciò dicendomi: una laurea come la tua ti garantirà una vita diversa da quella che abbiamo fatto la mamma e io. La stessa certezza ho avuto nei confronti di mio figlio Alessandro. A differenza di mio padre, sono stato un genitore a volte assente. Ero molto assorbito dal lavoro nei giornali, sapevo che studiava, tanto al liceo che all'università, e questo mi bastava. Non nutrivo nessun timore per il suo futuro. Erano i primi anni Ottanta e non esistevano le apprensioni di oggi. Per un bravo laureato l'avvenire era sicuro. Niente precariato. Un lavoro tutelato da un buon contratto. Uno stipendio all'inizio modesto, ma destinato a crescere con il tempo e l'esperienza. Un percorso professionale aperto a ogni possibilità. Una carriera non facile, che tuttavia poteva condurti in alto. Grazie al merito e senza bisogno di contare sulla protezione di qualche santo in paradiso. I padri di oggi come vedono il futuro dei figli? Sempre più spesso sono indotto a pensare che, nella maggioranza dei casi, non siano in grado di prevedere niente. Tanto che, a volte, non si pongono nessuna domanda perché hanno paura della risposta. Oppure perché non sanno neppure immaginarne una. Il risultato è uno solo: per quel che riguarda l'avvenire dei figli, molti genitori vivono nel presente. Per dirla in modo secco, campano alla giornata. Osservano i figli crescere, superare l'adolescenza, entrare nella prima età adulta e non riescono ad avvistare che cosa gli accadrà l'indomani, dopo sei mesi, un anno o cinque anni. Se li interroghi, questi padri e queste madri dichiarano la loro impotenza a intuire quale vita faranno i loro ragazzi. È un silenzio obbligato. Che può essere infranto soltanto se chi li interroga è un amico o una persona che merita la confidenza più totale. Allora confessano le ansie che li assediano. Sono tante e molto diverse, ma conducono a un risultato sempre uguale: il timore che i figli incontrino un'esistenza ben più difficile della loro. E siano costretti a retrocedere nella scala sociale. Sino al punto di ricadere nella povertà, la stessa dei padri, delle madri e soprattutto dei nonni. Per questo dico che molti genitori vivono nel presente. Rifiutano non soltanto di affacciarsi al futuro, ma ancor più di dare un'occhiata al passato. Anche il passato li induce a mille timori. Fa emergere fantasmi che credevano di aver sconfitto per sempre. In questo libro ho guardato al mio passato senza timore, e ho cercato di raccontarlo com'ero capace. Quando dico mio, intendo quello della famiglia che mi ha generato. Il passato di mio padre Ernesto e di mia madre Giovanna. Il passato dei miei nonni, a cominciare da quelli paterni. E soprattutto il passato della mamma di mio padre: Caterina Zaffiro, la nonna che, dopo aver cresciuto sei bambini da vedova in miseria, si è occupata anche di me e di mia sorella Marisa. Il giorno che sono nato Caterina aveva 66 anni. Era una donnina d'acciaio, mai piegata dalle infinite disgrazie e dalla miseria patita sin dall'infanzia. Dopo aver sposato i figli, era rimasta a vivere con mio padre Ernesto, l'unico ancora scapolo. E quando anche lui aveva messo su famiglia, era andata ad abitare con gli sposi, a tu per tu con la nuora, mia madre Giovanna. Sono vissuto con Caterina sino all'età di 11 anni e mezzo. Di solito si pensa che le nonne contino poco per i nipoti maschi. Invece la sua presenza costante ha arricchito la mia infanzia. Come leggerete in questo libro, Caterina era analfabeta, però mi ha condotto alla scoperta di una realtà preziosa: la storia di un mondo disperato dal quale, in fondo, venivo anch'io. È stata una maestra di vita. Se non l'avessi incontrata, se non avessi passato molte ore con lei, ascoltando i suoi racconti, a cominciare da quello della propria esistenza disgraziata, non sarei la persona che sono. Ancora oggi la memoria della sua fatica di vivere è la lezione che considero più importante e formativa fra le molte che ho ricevuto, a scuola e nel lavoro. Per questo motivo, la figura di Caterina appare di continuo in tanti miei scritti. A volte, qualche amico mi domanda, con ironia affettuosa: «Di nuovo Caterina?». Rispondo: «Certo, di nuovo lei, sempre lei. Le devo molto e mi piace farla rivivere. È l'unico modo che ho per ringraziarla di quanto mi ha donato». In Poco o niente ho cercato di narrare le vicende di una famiglia qualsiasi a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Una famiglia che ha incontrato le medesime sofferenze di tante altre, come accadeva alla grande maggioranza degli italiani di quel secolo e della prima metà del Novecento. Allora milioni di cittadini dell'Italia unita da poco erano assediati da un'infinità di nemici che troverete descritti in Poco o niente. La povertà, la fame, le malattie, le epidemie, la sfortuna che insegue sempre i più miseri, la violenza privata e quella pubblica. Il tutto sullo sfondo di troppe guerre, concluse dal massacro del primo conflitto mondiale. Una follia che spalancò la porta a un fanatico scontro politico fra sinistra e destra, il prologo sanguinoso alla nascita del regime fascista. Il sottotitolo di Poco o niente recita: Eravamo poveri. Torneremo poveri. Confesso che avrei preferito che la seconda riga si concludesse con un punto interrogativo, per non apparire un profeta di sventure. Ma l'editore ha deciso altrimenti. Del resto, l'eventualità di tornare indietro se ne sta sempre in agguato in questo difficile 2011. È come un incubo che può ripresentarsi soprattutto nell'esistenza di tanti giovani. L'incertezza del futuro riguarda loro, più che gli anziani. I ventenni di oggi sono diventati il problema numero uno della società del Duemila. Vivono una giovinezza in apparenza spensierata, senza problemi, ma che nasconde un rischio micidiale. Quello di arretrare nella scala sociale e di non poter neppure conservare quel poco che i genitori hanno costruito per loro, con il lavoro e con il risparmio. La mia speranza è che la storia di Caterina e di suo figlio Ernesto rammenti ai giovani di oggi che il benessere non è una conquista definitiva. E può essere perduto. Le vicende narrate in Poco o niente non sono per nulla relegate in un tempo lontano. Ci riguardano da vicino, stanno ancora dentro le nostre esistenze e un giorno potrebbero bussare alla porta di ciascuno. Le ho narrate alla mia maniera, cercando di non scrivere un libro che rievocasse soltanto eventi tragici e un seguito incessante di disgrazie. Insieme ai miserabili dell'Ottocento e del primo Novecento, la carne da cannone della prima guerra mondiale, ho descritto com'era l'Italia di allora pure nei suoi lati meno tetri. Qui c'è anche l'amore, spesso violento persino fra le mura domestiche. L'incontro fra i signori ricchi e le ragazze povere, con le passioni e gli intrighi che ne derivavano. Gli amori clandestini, i tradimenti, le punizioni, i delitti d'onore. Le donne che campavano vendendo il proprio corpo. I bordelli autorizzati e le prostitute definite girovaghe. Il trionfo del sesso, non esibito come oggi e tuttavia sempre presente, anche nei racconti a mezza bocca di Caterina. Qualche volta ho ripreso e ampliato le tracce seminate in altri miei libri. A cominciare da Romanzo di un ingenuo, pubblicato nel 2000 da Sperling & Kupfer, un editore al quale devo molto. Ho scritto Poco o niente con emozione. Dentro queste pagine c'è anche la vita dei vecchi ragazzi come me, ormai diventati signori “su di età”, avrebbe detto Caterina. I miei capelli bianchi mi regalano un vantaggio sui giovani: non ho paura del mio futuro. Qualunque cosa decida per me il Padreterno, mi troverà soddisfatto di aver onorato il debito che avevo nei confronti di chi è venuto prima di me. di Giampaolo Pansa