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La vita di Sergio Bonelli Il suo fumetto più riuscito

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Con l'editore di Tex e Dylan Dog, scompare un pezzo di storia del costume. L'Hemingway di via Buonarroti più forte della crisi dei comics

Carlotta Addante
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Giù la testa. Rullino i tamburi dei Navajos; si scappellino Tex e i suoi pards; gridi il suo dolore Zagor, di liana in liana, di cuore in cuore, a riempire la foresta di Darkwood; si libri il Piper di Mister No verso il paradiso dei galantuomini, sorriso guascone, sigaro in bocca, Oh when the Saints/ go marching in in sottofondo: è morto Sergio Bonelli. Un italiano migliore della media. Il migliore che io abbia conosciuto. Scrivo l'epicedio del grande editore, l'uomo che s'era mutato da Hemingway del fumetto ad Alcide De Gasperi dell'editoria  -modestia, strategia, pessimismo e autorevolezza innaturali - con occhi pesti per la perdita di un mentore e di un amico. Non ci credo ancora. Sergio per me era invulnerabile: la morte, al limite, poteva sfiorarlo alla tempia come le pallottole facevano con Tex. L'intervistai nell'89: era il mio primo pezzo sull'Arena di Verona; da allora non smettemmo di frequentarci, e di collaborare. Ci si vedeva al ristorante o nel suo ufficio-fortino di via Buonarroti, presidiato da una biblioteca borgesiana, soldati bronzei e inquietanti marine surrealiste mischiate a serigrafie di Klimt e foto di John Ford. Uomo coltissimo, Sergio. Ma mai una volta  che non si lamentasse. Ora era l'anca da poco operata, ora il fischio all'orecchio. Ora era la crisi del fumetto, morto infilzato dalla tv e da Internet; e, si fosse ritirato lui, come diavolo avrebbero fatto «i suoi venti lettori e i suoi disegnatori, cento bocche voraci da sfamare». Anche se poi le bocche erano 250 per 1300 tavole mensili, e i suoi lettori l'esercito in grado di salvare Repubblica dall'emorragia di copie. Sergio pareva uscito dalla penna di Stevenson, di Melville, di Conrad, di Zane Gray, maestri d'avventura. Gli anni migliori li aveva consumati nel cameratismo con Hugo Pratt e nell'amicizia degli indios Yanoama in Amazzonia, e nella conoscenza di Hemingway a Pamplona, giusto per rispolverarne l'oleografia. «L'oleografia ce la mettete voi; io faccio fumetti, mica ho inventato la penicillina o la Coca Cola...», ci rimbrottava sempre. E lo faceva ricevendo grappoli di fan, raccattando disegnatori e scrittori disoccupati dalla strada, concedendosi a decine di studenti che sui fumetti scrivevano noiosissime tesi che nessuno avrebbe mai letto. Tranne Bonelli. Il quale, se nella scrittura era un ribollìo creativo (dice sul Brasile più un Mister No che tutto il National Geographic), nel lavoro d'editore era d'una pignoleria gesuitica. Lavorava venti ore al giorno. Aveva una governante disperata, una famiglia sparsa tra Ibiza e l'Europa dell'est e una brandina parcheggiata nello studio,  gli fosse toccato - si sa mai - di sfogliare bozze di racconti, correggere titoli, riscrivere articoli interi come l'ultimo dei capiredattori. Negli anni 70, all'apice della sua fortuna, era uno degli uomini più ricchi d'Italia, pur viaggiando su una Panda scassata e indossando un impermeabile alla tenente Colombo. Un tempo era un irrequieto. Per scovarlo dovevi rovistare nel Sahara tra i Tuareg, in Perù sulla Chila, sul Kilimangiaro o tra i Cangaceiros brasiliani. E nei tabarìn del dopoguerra, a tirar tardi dietro le gonnelle seguendo l'avanspettacolo dei Totò e tutti gli Shakespeare di Albertazzi. Da qualche tempo s'era placato: «Invecchio, i miei lettori crescono e mi danno del lei, i capelli imbiancano, non riesco più a farmi le rapide del Rio delle Amazzoni e non reggo più  le zanzare giganti di Bahia», diceva sparendo nei weekend, per infilarsi in qualche cinema off di Londra o Parigi dalla programmazione rigorosamente in bianco e nero.  Le volte che l'ho visto ebbro di felicità si contano: parlando dei nipotini Matteo e Martina avuti dal figlio Davide; e in occasione della laurea honoris causa in Scienza della Comunicazione che La Sapienza  gli affibbiò  per il ruolo avuto nella cultura italiana. Con i suoi Martin Mystère, Dylan Dog, Mister No, Ken Parker, Dampyr, Julia, Bonelli  è stato il re  indiscusso del settore. Del nostro rapporto ricordo due episodi. Il primo nel '92, piena tempesta giustizialista. Il vecchio  Tex  venne sfiorato da Tangentopoli. Io - e pochi altri - insorgemmo, scrivendo che non si era mica nel selvaggio West ai tempi di quella carogna del giudice Bean, con gli assassini dietro i cactus e i ladri di cavalli sdraiati nei saloon; e che la Procura di Milano, prima d'insaponare la corda per l'impiccato, avrebbe dovuto verificare se dietro i capi d'accusa ci fosse, perlomeno, lo zampino di Mefisto. Ci volle qualche annetto, ma anche da quella storia Bonelli uscì a testa alta. Il secondo episodio attiene al leggendario quesito filosofico: Tex  è di destra o di sinistra (enigma irrisolto che squassa i fans Sergio Cofferati e Massimo Fini)? A sentirlo, Bonelli, incastonato nella scrivania, smorzò per un attimo il suo juke box Wurlitzer e osservò i suoi dipinti griffati Usellini e Martini: «Peste, anche tu 'sta domanda idiota. Quando Tex  dice che i banchieri sono ladri è di sinistra, ma dopo dice che gli indiani devono andare d'accordo con i militari ed è di destra.  Tex , al limite sarebbe radicale...». Scoprire che Tex avrebbe votato Pannella m'incupì parecchio. Sergio era reazionario moderno:  leggeva cinque giornali al giorno, diffidava di telefonini e social networks, dei politici e degl'intellettuali che negli anni 60 ne giudicavano i  fumetti roba da minus habens, e che dopo cominciarono ad idolatrarlo. Ne ricordiamo la battuta esplosiva, il sorriso da cowboy ipocondriaco e l'abbraccio da pilota che atterra a pelo sul Rio delle Amazzoni. So long, Sergio Bonelli, il migliore di tutti. di Francesco Specchia

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