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Dieci anni dopo, una domanda: che cosa è il 'nemico' oggi?

Sui quotidiani ci si chiede quali siano le conseguenze dell'attacco. La battaglia è vinta, economica, per o tra le democrazie?

Andrea Tempestini
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La certezza di questi dieci anni sta nella compostezza del dolore. In quella dignità che dimostrò Gerorge W. Bush all'indomani dell'attacco alle Torri Gemelle e nella fierezza con cui Barack Obama ha più volte rivendicato l'insopprimibile orgoglio degli Stati Uniti. Nella nostra piccola Italia, in occasione dell'anniversario del massacro, è possibile udire ancora il rumore di fondo del calcio con cui Oriana Fallaci, il 29 settembre del 2001, sfondò il vetro delle nostre coscienze. “La rabbia e l'orgoglio”. L'orgoglio degli Stati Uniti e quella rabbia che né Bush né Obama, pur puntuali e chirurgici nel colpire il nemico che individuarono, ebbero l'ardore di sfogare con tanta franchezza. D'accordo oppure no con la Fallaci, è difficile non iniziare una riflessione partendo proprio da quell'articolo. Questo perché, senza mezzi termini e senza giri di parole, veniva individuato il nemico. La Fallaci, in quelle righe dalla potenza disarmante, chiedeva di sconfiggerlo e chiedeva a tutti noi italiani di spogliarci di quello che riteneva un vestito di codarda ipocrisia. D'accordo oppure no, sia che il bersaglio fossero le schegge impazzite del terrorismo o l'islam tout court o qualcos'altro ancora, oggi ci si interroga su chi sia, o cosa sia diventato il nemico. Il nemico è vinto?- Vittorio Emanuele Parsi, dalle colonne de La Stampa, spiega come quella tra “terrorismo e jihadismo”, la guerra santa nel nome del fondamentalismo, sia stata un'associazione talmente stretta da aver comportato una sovrapposizione che deve essere confutata. Tanto che “se oggi ci chiediamo che cosa resti del jihadismo globale e soprattutto della sua manifestazione più inquietante per noi, il terrorismo globale di matrice islamista, la risposta è ben poco”. Secondo Parsi, il merito però “non è nostro”. Non è né degli Stati Uniti né tantomeno dell'Occidente. “Sono state le rivoluzioni arabe di quest'anno a sottrarre terreno al terrorismo jihadista, grazie alla loro capacità di ridare speranza alle fin qui disperate masse arabe e a borghesie politicamente allineate”. Il professore opera una distinzione: “Può ben darsi che a novembre, in Egitto, i Fratelli musulmani vincano le elezioni (…). Ma confondere le formazioni islamiste radicali con i gruppi terroristici jihadisti è un errore grossolano che a Washington è costato e sta costando carissimo in termini politici”. L'Islam radicale - La guerra contro la jihad, secondo Parsi, è vinta. Ma il conflitto può subire, o forse ha già subito un mutamento. Dalla guerra al terrore a quella con l'Islam radicale. Il ritrovato vigore degli attacchi a Israele - la strage di Eilat e l'assalto all'ambasciata al Cairo - tracciano uno scenario inquietante. Come ricordava Lucia Annunziata sempre dalle colonne della Stampa, “è ancora tutta aperta la sfida per il Medio Oriente”, “figlia questa volta non dei sogni di distruzione di un bin Laden, ma della instabilità creata dalle pur entusiasmanti rivoluzioni popolari della primavera scorsa”.  Perché secondo l'Annunziata, “qualunque cosa ci dica il nostro senso di colpa occidentale, la storia ci dice che la sfida per il dominio del mondo arabo nasce al suo interno, ha radici in identità locali, religiose e di confine”. Ma oggi - qui la differenza - “sono in crisi anche i Paesi occidentali che hanno sempre giocato al fianco dell'uno o dell'altro Paese”. Il risultato è che il declino politico dell'Occidente  apre un ennesimo vuoto”, lasciando “spazio per l'ennesima volta alla crudele competizione di cui vive il Medio Oriente”. Ovvio, l'Occidente non è dichiaratamente in guerra con il Medio Oriente (Barack Obama dopo l'uccisione di bin Laden, insisteva sulla “guerra ad al Qaeda”, lungi dal terminare). Resta il fatto che il mondo arabo è una polveriera. L'economia - Bill Elmmott, sul Corriere della Sera, si interrogava: “Quale data vi sembra sia stata la più importante e consequenziale, l'11 settembre, la caduta delle Torri Gemelle, o il crollo, il 15 settembre 2008, della Lehman Brothers?”. L'ex direttore dell'Economist, concorde con l'ex collega Emma Duncan, propendeva per la seconda ipotesi. Aggiungendo però “un elemento di disaccordo (…). E cioè che l'11/9, in effetti, ha portato al 15/9”. L'argomento speculativo è al centro di dibattiti che si protraggono dalle prime manifestazioni della crisi dei mutui subprime. Secondo Emmott la consequenzialità sta nel “trauma di quell'atrocità (l'attacco alle Torri, ndr)”. Senza quel big bang e senza “la sensazione diffusa in tutto il mondo che l'America fosse in guerra con nemici nascosti, la politica economica sia in America sia in Europa non sarebbe stata così lassista ed espansionistica, e per così tanto tempo. Né ci sarebbero state la bolla del credito e il boom immobiliare che hanno portato, alla fine, al crollo di Lehman Brothers e alla stagnazione economica”. I riferimenti sono tutti alle “guerre gemelle”, Iraq e Afghanistan, nonché alla caccia allo sceicco del terrore, processi che “hanno accelerato queste tendenze”, ossia la deriva economica del mondo occidentale. In conclusione, “il vero grande cambiamento, tuttavia , è l'effetto economico di quello sforzo espansionistico (…). Le conseguenze economiche del 15 settembre, del collasso della Lehman, sono ancora in corso, ma promettono di essere gravi per i decenni a venire”. Le domocrazie - Per Charles Kupchan, la correlazione del ‘doppio crollo' non è così automatica. Lo sfaldamento economico deriverebbe dal processo di globalizzazione che “sembra indebolire le capacità di governo e al contempo sottopone nuove sfide all'elettorato”.  Nel contesto globale, premette, s'inserisce a perfezione lo “scontro di civiltà” tra Isalm radicale e Occidente “provocato da un mondo interdipendente”. Kupchan aggiunge che, comunque, “gli attentati dell'11 settembre e la fragilità politica dell'Occidente sono molto più intimamente connessi di quanto si possa immaginare”. Ma il pericolo maggiore, conclude, non sta nelle capacità distruttive dello spettro di bin Laden, piuttosto “sta proprio nell'erosione interna della comunità atlantica, man mano che le democrazie liberali sono costrette ad affrontare tutta una serie di crisi che ne mettono in dubbio legittimità e competenza, senza però trovare risposte adeguate”. A dieci anni dall'11 settembre, fermo restando la compostezza del dolore da cui nessuno può affrancarsi, il dibattito su quali siano le conseguenze a lungo termine dello sfregio agli Stati Uniti non trova risposte univoche. Forse la jihad è stata sconfitta. E' altrettanto possibile che l'Islam moderato, come sostiene Parsi, abbia piegato le correnti radicali, o che il successo sarebbe stato impossibile senza le lunghe guerre (occidentali) che si continuano a combattere. Gli aerei contro le Twin Towers possono aver fatto crollare anche Lehman Brothers, oppure il castello di carta della finanza aspettava solo l'ultima, distruttiva, folata. Le rivolte nel mondo arabo erano già scritte, oppure senza la forza della fascinazione individuale per la morte in nome dell'Islam di Atta e compagni non ci saremmo mai arrivati. E la stessa Primavera araba può essere la riscossa contro le dittature come la base florida per nuovi fondamentalismi. Quando Obama spiega che anche con un bin Laden in meno “non dobbiamo mai esitare di fronte al compito di proteggere la nostra nazione” sembra raccogliere in poche parole tutte queste incognite, questi dubbi, queste possibilità. Si tratta di capire che cosa sia diventato il nemico  - ammesso che abbia subito mutazioni - e quale peso abbia avuto nel trasformare il mondo in ciò che è oggi. di Andrea Tempestini

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