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Tangenti rosse, ora basta omertà: il Pd c'è dentro fino al collo

Rete-scandalo si estende fino a Liguria e Piemonte. Giallo sulla 'caparra' dell'uomo di Prodi. Mussi: "Il partito dei fondi neri"

Andrea Tempestini
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Ammesso che abbia mai retto, la linea difensiva del Penati lupo solitario in un partito che non vedeva e non sapeva (e che, avesse saputo, onesto com'è avrebbe fatto un quarantotto) sta pochissimo in piedi. Mano a mano che emergono i dettagli delle inchieste sull'ex braccio destro di Pier Luigi Bersani, si delinea un quadro che - ovviamente se confermato dai magistrati - rende difficile sostenerla. Intanto perché, specie per quanto riguarda l'indagine sulla Serravalle, la faccenda sta travalicando gli angusti confini di Sesto San Giovanni. E sta iniziando ad accostarsi a nomi in forza ai Democratici anche in Piemonte e Liguria, rispettivamente l'ex segretario del Pci torinese e oggi presidente dello Iacp del capoluogo piemontese Giorgio Ardito (cui Binasco avrebbe fatto pervenire un pagamento: Ardito, non indagato, smentisce) e l'attuale sindaco di Genova Marta Vincenzi (che da presidente della Provincia di Genova vendette le quote dell'autostrada al gruppo Gavio). Senza contare Angelo Rovati. L'ex braccio destro di Romano Prodi è stato intercettato al telefono con Binasco a discutere di una caparra con scadenza al 31 dicembre 2010. Che per i pm è la doppia caparra Binasco-Di Caterina al centro dell'inchiesta (i giudici vogliono capire se fosse una forma di pagamento occulto per Penati) e che per Rovati è invece la caparra di una casa da lui stesso venduta al gruppo Gavio e in scadenza, curiosamente, lo stesso giorno di quella sotto la lente dei pm. Si obietterà che sempre di singoli si tratta e che di qui al sistema ce ne passa. Non fosse che ieri - e al momento di andare in stampa non si registravano smentite - un peso massimo degli ex Ds, l'ormai vendoliano Fabio Mussi, abbia avanzato il più terribile dei sospetti: che quei soldi siano serviti ad influenzare il congresso della Quercia nel 2001, quando i dalemiani sconfissero il Correntone e fecero incoronare Piero Fassino segretario. «Se per caso», dice l'ex ministro, «viene fuori che in quel congresso sono girati dei soldi per condizionarne l'esito, giuro che gli faccio una class action». E forse è anche per questo che, rispetto ai primi giorni, il coro di quelli che «il partito non c'entra niente» va subendo rilevanti defezioni. A difendere il buon nome della ditta rimangono solo gli ultimi pasdaran («Nel Pd non esiste una questione morale aperta», afferma Giorgio Merlo, «e le modalità del passato qualunque esse siano state, cioè dei partiti che precedevano la nascita del Pd, non possono ovviamente ricadere sul presente»). Mentre le voci di dissenso si fanno sempre più autorevoli: «Il Pd di oggi non corrisponde alle ambizioni, ai desideri e ai sogni del momento in cui lo abbiamo realizzato», ha ammesso ieri Goffredo Bettini, ex braccio destro di Veltroni che il Pd l'ha tirato su in prima linea salvo prenderne progressivamente le distanze mano a mano che ne prendeva forma l'attuale fisionomia. E se lo dice lui. di Marco Gorra

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