In Italia i cronisti della m... travestiti da nuovi filosofi
Grandi firme in crisi d'identità. Sguazzano nel pantano delle intercettazioni per poi spacciarle come un "ritratto della società"
Siccome anche le grandi firme sono costrette a razzolare nella merda (scusate, ma ormai abbiamo sdoganato anche quella) abbondano i più vari affreschi voyeristici che riportano meramente tutte le intercettazioni possibili, anche le più inutili e inconferenti: e però lo fanno con la postura dell'analisi para-sociologica, dello «spaccato» di un Paese o di un'era politica, tutta una tara pretenziosa che serve a giustificare un contenuto netto che è puro guardonismo. Basta atteggiarsi a sensori di un'epoca o a viaggiatori salgariani (è sufficiente leggere dei brogliacci via internet, del resto) ed ecco che il grande corsivista o analista o elzevirista può tranquillamente continuare a rovistare nella merda, perché i tempi sono quelli che sono e la magistratura è il nostro vero editore, ormai. Ecco allora che abbondano le citazioni letterarie, le metafore, i riferimenti alla commedia all'italiana, non c'è scambio telefonico che non riassuma «il grande dramma dell'Italia» e altre sciocchezze finto-distaccate: ma l'odore rimane. Oltretutto non è vero, le intercettazioni non riassumono niente, non sono uno spaccato di niente, una metafora di niente, è tutta una scusa, una balla. Gli squarci parziali aperti da colloqui parziali sono scampoli parziali di realtà parziali, schegge di nicchie più o meno miserande del potere, frammenti di realtà spesso private e spesso banali che diventano ancora più banali per come noi giornalisti cerchiamo appunto di banalizzarle, cioè di piallarle alle nostre esigenze di bottega, renderle archetipiche e «sociologiche» perché ci vergogniamo di come abbiamo ridotto il nostro mestiere. Noi non siamo gossipari, siamo giornalisti. Eh già. Non scrivo da un eremo, e conosco quanto basta gli anfratti di quella politica e di quel potere che ora si vorrebbe trasformare ne «il grande dramma dell'Italia»: dunque credo di poter dire, semplicemente, che quella non è l'Italia. Le vite disinvolte e disperate dei Tarantini e dei Lavitola non sono l'Italia. Sarà anche e in minima misura lo specchio del Paese, ma quello reale - quello di tutti i giorni, dalle Alpi a Capo Passero - è un'altra cosa come tutti sappiamo, e come nei giornali è sempre meno descritto: anche perché non sono solo i politici ma anche i giornalisti, ormai, a far parte dello stesso calderone virtuale, della stessa piazza rigorosamente catodica. O telefonica, ormai. Francesco Merlo, su Repubblica, si è spinto a scrivere che certi scambi telefonici «bisognerebbe farli circolare nelle scuole»: ma per favore. Provi a chiedere nelle scuole di Parigi, dove vive, che cosa ne pensano. Ha scritto questo, Merlo, dopo aver fatto un'analisi approfondita della frase «vieni qui e fammi una pompa». Merlo utilizza il personaggetto Lavitola anche per sostenere, nella sua pretesa di esclusività nel rapporto con Berlusconi, che «L'Italia è costruita così». Ma lo cerchi nei rapporti Istat, lo spaccato del Paese. Nei rapporti Censis. In una collana di libri de Il Mulino. Oppure in un mestiere che, come per i panettieri, nessuno vuole più fare: il giornalista. di Filippo facci