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Schiacchiati Pd, quella telefonata di Bersani pesa come un masso nella tangentopoli rossa

Fu il segretario a mettere in contatto il suo braccio destro e Gavio: anche lui ci dovrebbe delle spiegazioni

Andrea Tempestini
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«Pronto, sono Filippo Penati. Mi ha dato il suo numero l'onorevole Bersani»: comincia così, con una telefonata, l'intenso sodalizio tra l'allora presidente   della Provincia di Milano e un imprenditore,  Marcellino Gavio. Era il luglio del 2004. All'ascolto c'era anche la Procura di Milano, che stava indagando sulla scalata Unipol a Bnl. A quell'intercettazione allora non si volle dare peso alcuno: altri erano i protagonisti. Poco ne ebbe anche quando la Procura di Monza la rilesse nel quadro dell'inchiesta sul sistema Sesto San Giovanni. In questi giorni, però, sta assumendo un'importanza che pare destinata a crescere: somiglia sempre di più all'indizio sotto gli occhi di tutti che, nei romanzi gialli, si rivela decisivo soltanto nelle ultime pagine. L'indagine partita dalle tangenti per l'area dismessa dalle acciaierie Falck si è infatti allargata al passaggio di mano delle azioni Serravalle, avvenuto nel 2005. Gavio, che le aveva acquistate a 2,9 euro l'una, le vendette alla Provincia a quasi nove, il triplo cioè del loro valore, guadagnandoci la bella cifra di 179 milioni, 50 dei quali finirono appunto nell'affare Unipol. Il primo a sollevare dubbi fu Gabriele Albertini, a quel tempo sindaco di Milano, i cui ripetuti esposti non ebbero esito. La Procura di Milano ordinò una perizia, secondo la quale il prezzo era congruo, benché la Corte dei conti fosse di avviso diametralmente opposto. Gl'inquirenti briantei hanno riesaminato l'intera vicenda, ponendosi due domande: chi stabilì quel prezzo? Che fine hanno fatto i soldi? Alla ricerca di riscontri, hanno indagato per concorso in corruzione un funzionario di Banca Intesa, Maurizio Pagani, che avrebbe preso parte alle trattative, nelle quali si sospetta che sia stata definita anche la stecca da riservare a Penati. Il dubbio è che parte del ricavato, oltre a tacitare le pretese di Piero Di Caterina, uno degli imprenditori coinvolti nel giro, sia finita nelle casse del partitone. Per ora si tratta d'un sospetto, non destituito di fondamento ma neppure suffragato da elementi di fatto. A questo punto il nome di Bersani, emerso in quella prima telefonata, suona in modo diverso. Non cerchiamo querele e neppure vorremmo essere oggetto d'una livorosa class action, già minacciata in altre occasioni. Si aggiunga tuttavia che le coop rosse già sono entrate nell'inchiesta e che, stando a quanto riferisce Panorama, avrebbe preso corpo anche una pista pugliese, che partendo dall'ex Stalingrado d'Italia arriva a lambire D'Alema e compagni. Tutto da dimostrare, beninteso: ma saremmo confortati se il segretario del Pd rispondesse a qualche domanda, cominciando da quelle formulate su queste pagine da Maurizio Belpietro. Ne aggiungiamo un'altra: perché s'è sentito in dovere di favorire l'incontro tra Penati e Gavio? Se non si trattasse d'una semplice cortesia tra vecchi amici, si aprirebbero scenari poco edificanti. Non intendiamo dare credito a teoremi accusatori stile “non poteva non sapere”; d'altra parte nessuno li ha mai applicati alla sinistra, neanche all'epoca di Tangentopoli e del compagno G. Eppure, alla luce di quanto è avvenuto, quella presentazione merita d'esser giustificata. Penati ha detto e ripetuto di non essersi arricchito. Gli crediamo. Ma in qualche capiente tasca le mance di Gavio sono finite. Ci piacerebbe sapere quale. di Renato Besana

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