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Occulti C'è la fattura che inchioda Penati e il Pd Ecco la prova delle maxitangenti alle Coop

'Panorama': pm hanno scoperto versamenti milionari per prestazioni mai erogate. Tra Filippo e uomini di D'Alema strani giri

Andrea Tempestini
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Un tragico destino, talora, alberga nel cognome. “Penati” deriva dal latino penus, indica la mangiatoia, “tutto ciò di cui gli uomini si nutrono”. E come gli antichi “dèi Penati” venivan deputati alla preservazione della famiglia, Filippo Penati ex responsabile della segreteria di Bersani era il nume tutelare, il deus ex machina, il rastrellatore di fondi elettorali per la grande grassa famiglia dei Ds-Pd. Questo secondo i piemme di Monza Walter Mapelli e Franca Macchia, per i quali Penati avrebbe in anni, «creato un direttorio finanziario democratico (nel senso dei Democratici, ndr) che per un quinquennio ha sfruttato la funzione pubblica  a fini di arricchimento privato e di illecito finanziamento della politica...». Circa 12 milioni di tangenti  incassate tra il 1994 e il 2010. I sacrifici agli dèi Penati, in pratica, si facevano direttamente per il Partito. Notizia non inedita: l'aveva già anticipata Andrea Scaglia su Libero il 27 luglio scorso. Ma oggi il settimanale Panorama fornisce le carte:  una scrittura privata firmata il 13 febbraio dalla società immobiliare milanese Cascina Rubina (di cui è azionista il principale accusatore di Penati, Giuseppe Pasini) e dalla Aesse di Modena il cui presidente l'avvocato d'affari palermitano Francesco Agnello è legato a filo triplo alle Coop rosse, come il suo socio modenese Giampaolo Salami. Tra i documenti affiorano fatture incassate da Aesse, tra cui quella di 1.549.370 euro per una semplicissima “presentazione di potenziali acquirenti”, una normale mediazione nell'affare dell'area Falck di Sesto che  “viene imposta da Penati a Pasini”, il quale accetterebbe le Coop come “snodo fondamentale per il buon esito dell'affare” e “per il loro rapporto organico coi vertici del Pd”.  Le carte sono dunque l'anello mancante che condurrebbe alle cooperative emiliane. E le Coop sarebbero il veicolo della corruzione.  «È chiaro fin dall'inizio che (le Coop) debbano essere della partita per la costruzione del complesso immobiliare e che pretendono e ottengano provvigioni a fronte di contratti per prestazioni inesistenti, fatturate da Aesse e Fingest (l'altra società di consulenza coinvolta, pagata con 2,4 milioni, ndr) destinate a regolare i conti con la politica a livello centrale», scrivono i magistrati. Livello centrale. Se esiste un livello centrale, si suppone ve ne sia anche uno periferico. Quindi esisterebbe una ragnatela d'illeciti: tutto uno sfarfallare di pagamenti dalla “valenza simulatoria”, di coperture per restituzione di fondi; ed è questo il motivo per cui la Procura indaga per concussione anche Omar egli Esposti vicepresidente del Consorzio cooperative costruttori. E senza «alcun fumus persecutionis» come ha onestamente ammesso a La7 Walter Vetroni. I piemme appaiono determinatissimi. Al punto di sospettare un'altra “sponda corruttiva” nel costruttore Marcellino Gavio coinvolto nel filone  Milano -Serravalle. L'impianto accusatorio sarebbe talmente convincente da spingere i magistrati al ricorso contro la decisione del gip  Anna Magelli che ha trasformato l'ipotesi di reato da concussione  a corruzione, ammorbidendo la situazione di Penati. Penati pare che in questa azione di idrovora pecuniaria avesse perfino un nome in codice, “Primo”. Come, “primo tra i pari” essendo l'uomo tra i migliori organizzatori di campagne elettorali a detta dello stesso Bersani; o come - nota Panorama- Primo Greganti, il mitico “compagno G” che vide la Tangentopoli del '92 dalle sbarre di San Vittore, avvolto dal dubbio se avesse rubato per sè o per il Partito. Ah, il Partito. A parte le inquiete figure di Agnello e Salami, teste di ponte delle imprese delle cooperative rosse specie in Sicilia, il destino s'accanisce su parte della dirigenza dell'attuale Pd. Proprio mentre Massimo D'Alema chiosa su Penati: «il rischio di corruzione può essere dovunque», si profila all'orizzonte il  “clan dei pugliesi”: tre imprenditori che hanno fatto affari al nord. Renato Sarno, Enrico Intini e Roberto De Santis, il primo al centro di un' inchiesta della Procura di Monza e gli altri due di quella di Bari non hanno fatto affari qualunque. Ma un investimento di 100 milioni di euro in un progetto immobiliare a Sesto San Giovanni, a migliaia di chilometri di distanza. E i  tre, inoltre, sono finanziatori di Fare Metropoli, la fondazione che -guarda caso- fa capo a Penati. E fanno parte della Milano Pace spa, società immobiliare di Sesto i cui soci sono tutti rigorosamente di sinistra. De Santis, presidente-ad, è da sempre considerato vicino a D'Alema; di Intini e Sarno è stranoto lo stretto rapporto con Penati che nominò Sarno superconsulente alla società Milano-Serravalle. Le inchieste procedono. di Francesco Specchia

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