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Smemorati La supertassa idea di Franceschini Piaceva alla sinistra ma non agli italiani

Nel 2009 l'allora segretario del Pd proponeva un contributo straordinario per i redditi sopra i 120mila euro. Poi venne trombato...

Giulio Bucchi
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Non c'è mai nulla di nuovo sotto il sole. E aveva ragione il vecchio Arnaldo Forlani, il Coniglio Mannaro della Dc, quando citava un vecchio detto: «È  l'eterno ritorno del sempre uguale». Anche la super tassa di solidarietà prevista nell'ultima manovra finanziaria ha un precedente. Non sul versante del centro-destra, bensì su quello del centro-sinistra. Partorito nel marzo 2009 dal segretario del Partito democratico: Dario Franceschini.  Oggi il compagno Dario ha un potere ridotto, è soltanto il capogruppo del Pd alla Camera. E la sua audience è bassa, sovrastata da quella di Pier Luigi Bersani. Ma due anni fa a sedere sulla poltronissima dei democratici era lui, subentrato di colpo a Walter Veltroni. Il popolare Uolter, dopo una serie orrenda di sconfitte elettorali, si era dimesso senza dire né ai né bai. Lasciando il posto a Dario, il suo vice.  Il 21 febbraio 2009 Franceschini non ebbe nessuna esitazione nell'accettare l'incarico. Era estraneo alla storia del vecchio Pci, poiché l'avevano cresciuto nella Democrazia cristiana di Ferrara, la città natale. Ma sapeva che non avrebbe incontrato opposizioni. I democratici stavano nei guai. Per di più incombeva un altro appuntamento elettorale, quello europeo, previsto per giugno. Ad ogni buon conto Franceschini pensò che, pur arrivando dalla Margherita, sarebbe stato meglio accreditarsi come un leader di sinistra.  Allo scopo, l'astuto Dario escogitò due mosse, una di seguito all'altra. La prima venne annunciata l'ultimo giorno di febbraio. Disse: «Ci vorrebbe un assegno mensile di disoccupazione per tutti coloro che perdono il posto di lavoro. Il governo Berlusconi fa un sacco di decreti, ma questa volta le ragioni di urgenza ci sono».  Il neo segretario del Pd trovò subito il consenso entusiasta di Guglielmo Epifani, il leader della Cgil, e di Raffele Bonanni, il capo della Cisl. Enrico Letta, responsabile del Pd per le questioni del Welfare, spiegò che non si trattava ancora del reddito minimo garantito a tutti gli italiani, ma di «un primo passo in quella direzione».   La mossa di Franceschini piacque alle tante frange della sinistra. Ma incontrò anche qualche opposizione netta. Il ministro Maurizio Sacconi avvertì che «in una fase di crisi così acuta, era un'operazione impossibile». Ancora più esplicito fu Fabrizio Cicchitto, capogruppo della maggioranza alla Camera: «Sul sostegno al reddito di chi ha perso il lavoro siamo già intervenuti. Quella di Franceschini è demagogia pura». Anche nel Pd emersero perplessità. Il senatore Nicola Rossi, intervistato da Sergio Rizzo del  Corriere della sera, la bocciò come una proposta soltanto «mediatica»: «Ci sono ragioni di finanza pubblica che la sconsigliano caldamente. Il succo è che non ci possiamo permettere di fare una riforma sfondando il bilancio dello Stato».  Ma nessuno aveva messo in conto la testardaggine di Franceschini. E il suo gusto per i colpi di scena. Il leader del Pd lasciò trascorrere qualche giorno e poi incontrò molte associazioni di volontariato, come la Caritas, Sant'Egidio e il Banco alimentare della Compagnia delle Opere, che si occupavano di povertà. E l'11 marzo 2009 lanciò una nuova proposta. Quella che possiamo considerare la madre dell'odierna Tassa di solidarietà, prevista nella manovra finanziaria in discussione al Senato.  Franceschini battezzò in quel modo un contributo straordinario e temporaneo a carico dei redditi superiori ai 120 mila euro l'anno. Prevedeva che per il 2009 su quei redditi venisse alzata di due punti l'aliquota Irpef. La nuova imposta avrebbe riguardato fra i 150 e i 200 mila contribuenti con un incasso di circa 500 milioni di euro.  Questa somma sarebbe stata destinata a finanziare il Terzo settore, ossia il volontariato, e il Fondo sociale per i comuni. Franceschini disse: «Chiediamo ai redditi alti, come quelli dei parlamentari, di dare una mano a chi non ce la fa». L'accenno ai membri dei Parlamento era una furbata del segretario democratico, volta sfruttare il sentimento anticasta che già allora era molto vivo.  La furbata divenne evidente quando apparvero le inserzioni pubblicitarie e i manifesti preparati per reclamizzare la proposta di Dario. Con la sigla del Pd, strillavano: «500 milioni dai parlamentari e dai redditi oltre 120 mila euro per un fondo di sostegno alla povertà». Lo slogan si chiudeva con una domanda: «La crisi c'è. E il governo?».  La proposta di Franceschini ricevette subito il sì di Pier Ferdinando Casini e di Antonio Di Pietro. Insieme arrivò, a sorpresa, anche l'assenso di Bossi per conto della Lega. Il motivo lo spiegò Stefano Folli, sul  Sole 24 Ore  del 12 marzo: «In questi anni la Lega è cresciuta giovandosi della crisi della sinistra al Nord. È  evidente che non intende rinunciare a questo spazio».  Mentre la Cgil e la Cisl rinnovavano gli applausi a Franceschini, iniziarono ad affiorare i dissensi. Il primo apparve sulla  Repubblica, proprio il quotidiano più vicino al Pd. Il 14 marzo lo si poteva leggere nella rubrica quotidiana di Michele Serra, “L'amaca”. Lui spiegò quello che nel 2011 avrebbe ripetuto a proposito del contributo di solidarietà: la nuova tassa era destinata a colpire soltanto i contribuenti fedeli, senza fare un baffo agli evasori.  Poi le voci contrarie aumentarono. Sul  24 Ore  Alessandro De Nicola accusò Franceschini di ignorare i livelli della tassazione già troppo alti e di mirare soltanto al consenso elettorale. Sul  Corriere della sera  apparve la lettera pepata di un grande tributarista, Victor Ukmar. Il titolo diceva tutto: «Evasione e demagogia fiscale».   La proposta di Franceschini si perse per strada. E finì nell'archivio delle tante trovate del segretario democratico. Poi arrivarono le elezioni europee del 6-7 giugno 2009. E per il Pd fu una catastrofe: appena il 26,1 per cento dei voti. Molto poco rispetto al Pdl  arrivato al 35,2. Mentre la Lega portò a casa il 10,2 per cento.  La sorte del povero Dario era segnata. Pochi mesi dopo, nell'ottobre 2009, fu sostituito da Bersani. Per non mortificarlo del tutto, gli venne assegnata la carica di capogruppo alla Camera. Qualche amico lo consolò così: «In questo modo avrai più tempo per scrivere. Come romanziere sei davvero bravo». Ma era un complimento molto generoso. Secondo  Saturno, il settimanale di libri, arte e scienze del  Fatto quotidiano, alla fine di questo luglio il romanzo più recente di Franceschini, “Daccapo”, pubblicato da Bompiani, stava sul fondo della classifica generale. Per l'esattezza, al posto numero 842 (ottocentoquarantadue).          di Giampaolo Pansa

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