In Italia è scoppiata la guerra Meglio un governo tecnico
Pansa: per affrontare tempesta economica servono politici che non debbano rispondere a un'elettorato. Che brutta nomenklatura
«Prepariamoci all'arrivo della Padania, perché l'Italia sta andando giù!». Chi ha sparato questa strepitosa stupidaggine? Un dottor Stranamore che costruisce scenari folli? Un leghista di terza o quarta fila che crede nell'esistenza di un Paradiso terrestre a nord del Po? Macché, la cazzata è uscita dalle labbra del numero due del governo: Umberto Bossi, in una delle sue tante concioni estive, in canottiera o in maglietta salvavita. Il Senatur dovrebbe essere multato, come succede agli automobilisti che hanno una guida pericolosa. Ormai parla in libertà. Insulta i suoi colleghi ministri, come ha fatto con Renato Brunetta. Dice che gli incontri di governo sono una rottura di coglioni. E adesso che ha paura dei fischi leghisti, e rinuncia a comiziare per il terrore di essere contestato, ha ingranato la quarta e si è messo a rifilarci una sciocchezza dietro l'altra. Fino a qualche tempo fa, mi commuovevo nel vedere il Bossi alla tivù. Mentre procedeva a stento, con il sigaro a penzoloni, sorretto dal suo cerchio magico. A cominciare dalla Rosi Mauro, vice presidente del Senato, una vera eroina nell'assistenza ininterrotta al Senatur. Ma adesso non mi commuovo più. E mi domando perché un politico che ha visto la morte in faccia, e ne sia rimasto segnato, non abbia il coraggio di ritirarsi a vita privata. Basterebbe il caso Bossi per far ritenere il governo di centro-destra inadatto al compito tremendo che ha di fronte. Ma anche Silvio Berlusconi non sta bene. Lo ripeto per l'ennesima volta: il premier è un signore anziano e dovrebbe riposarsi. È circondato da processi e inchieste. Per di più, ha alle spalle un partito che ormai assomiglia a certe famiglie disgraziate, dove è scomparsa qualunque gerarchia e il disordine regna sovrano. CAOS SUL TERRITORIO Nel territorio del Cavaliere domina il caos. Ce lo dicono le avventure della manovra finanziaria. Nel giro di un mese ne è stata fatta una, decisa da Giulio Tremonti. Poi una seconda, imposta dalla Banca centrale europea. Adesso se ne profila una terza. I miglioratori della manovra nascono come funghi. Il primo è lo stesso Berlusconi. Ma allora diventa fatale domandarsi perché il premier abbia approvato tanto la numero uno che la numero due. Che cosa c'è dietro questo gigantesco pasticcio? A mio parere, prima di tutto c'è il pessimo livello della nomenklatura politica che siede in Parlamento. Definirla ancora una casta non spiega più nulla. Le caste, sia quelle politiche che economiche o militari, di solito sono organismi compatti. Sanno quello che vogliono e per ottenerlo si muovono con una coesione ferrea. Invece la casta nostrana è un baraccone, un circo equestre, un assemblaggio caotico di velleità, dove il primo che si alza la mattina pretende di comandare. Ma c'è anche un altro guaio, assai più pesante e connaturato ai regimi di democrazia parlamentare. Tutti i partiti, nessuno escluso, hanno un problema vitale: non perdere nemmeno uno dei voti che ritengono di possedere. Il fatturato elettorale è diventato il loro Santo Graal, lo scopo esistenziale. Guai a diminuirlo, sia pure di qualche frazione di punto. I sondaggi sono divenuti l'oroscopo infallibile che segnala se una parrocchia di partito rischia di morire oppure ce la farà a sopravvivere. LE SCELTE Tutte le scelte, soprattutto in materia di politica economica e finanziaria, quelle che incidono di più sulla vita dei cittadini senza potere, sono dettate da un imperativo: non lasciare per strada un solo elettore. Del resto, è sempre accaduto così. Tanto nella Prima repubblica che nella Seconda. Perché meravigliarsi? Non c'è nulla di nuovo. Tuttavia, in questa estate del 2011, un fatto nuovo esiste. Oggi in Italia siamo immersi sino al collo dentro una guerra. Il mondo è alle prese con un gigantesco conflitto finanziario che minaccia di distruggere tutto quello che di buono abbiamo costruito. Per esempio, i nostri risparmi. Il cittadino qualunque, ammesso che ne abbia, non li ha portati in Svizzera e non li ha tramutati in oro. Li ha consegnati a una banca, di solito in un conto corrente o acquistando titoli di stato. I DUBBI SULLE BANCHE Ma che cosa accade oggi a molte banche italiane? Ci hanno spiegato che la perdita di valore delle loro azioni, sancita quasi ogni giorno dai crolli in Borsa, non ha un'influenza decisiva sulla solidità degli istituti presi di mira dal mercato. E soprattutto sulla loro capacità di difendere i risparmi che gli abbiamo affidato. Voglio pensare anch'io che le cose stiano così. E cerco di mantenere intatta la mia fiducia nel sistema bancario italiano. Ma come la pensi io non conta nulla. Molti piccoli e medi risparmiatori sono preoccupati. Si domandano se la loro banca resisterà alla bufera oppure chiuderà i battenti, senza più restituire i soldi ricevuti in custodia. Spesso mi capita di incontrare persone che mi chiedono: lei è un giornalista e dovrebbe sapere se i miei conti correnti sono al sicuro. Che cosa debbo farne? Comprare dell'oro o dei preziosi? Ritirare i contanti e nasconderli da qualche parte? Acquistare qualche bene che domani non potrò più permettermi? Queste sono domande da stato di guerra. Ho i capelli bianchi e non ho mai vissuto in un clima come quello odierno. Tranne quando ero un ragazzino, fra il 1940 e il 1945. Allora la paura non riguardava il nostro benessere, che era scarso, ma la nostra vita. Temevamo le bombe degli anglo-americani che cercavano di colpire i due ponti sul Po della città. I piloti degli aerei incursori a volte si sbagliavano e le loro pillole cadevano sui rioni vicini al fiume. La gente moriva. Avevo nove anni e i bombardamenti mi sembravano la fine del mondo. Domandavo a mia madre: «Moriremo anche noi?». Lei sorrideva: «Non avere paura, Giampa. Ti proteggerò io!». Oggi chi mi protegge in questa guerra non dichiarata, ma che imperversa nel mondo? In Italia avremmo bisogno di un governo solido, non lacerato da risse interne, non succube del terrore di perdere voti. E capace di decidere nell'interesse della nazione, e non di questo o quello clan politico ed elettorale. Insomma, un governo di guerra. DUE ESECUTIVI Di governi del genere ne vedo soltanto due. Uno militare, che scarto subito perché i rischi sarebbero altissimi. E uno tecnico, formato da persone competenti e imparziali, in grado di mettere ordine in casa. Per poi cedere il passo a nuove elezioni generali. Nella speranza che il Parlamento che verrà sia non soltanto ridotto di numero, ma più efficiente di quello odierno. So che l'aggettivo “tecnico” fa venire l'orticaria a tanti politici, di tutti i blocchi, destra, centro, sinistra. Compresi pure alcuni parlamentari che stimo. Ma esiste qualche altra soluzione per sopravvivere alla guerra che rischia di travolgerci? Non mi pare. Almeno io non la scorgo. Purtroppo, prevedo che non se ne farà niente. La presunzione dei nostri big di solito è cieca. Dunque, procederemo a tentoni nel caos. Senza avere una madre che ci rassicuri con una carezza. Sono troppo fatalista? Forse sì. Ma sono soprattutto un signore che, per la prima volta nella vita, si pone una domanda brutale: santo dio, perché sono nato in Italia? di Giampaolo Pansa