Manifesto I punti proposti dal partito No-Tax: due aliquote, via i privilegi, tagli e sanità
La ricetta: abolire le Province, eliminare gli sprechi della casta, alzare età pensionabile, costi standard per spesa sanitaria
In due parole: meno tasse. Dice: ma questa l'ho già sentita. E infatti. Un progetto politico che rimetta al centro l'ormai improcrastinabile riforma del sistema fiscale. Pagare meno e pagare tutti, parafrasando un vecchio slogan. E non è più nemmeno un concetto politicamente etichettabile, ché se sulla questione Berlusconi ha deluso ogni aspettativa, d'altra parte gli elettori di sinistra non si dimostrano certo entusiasti dell'attuale impostazione. Peraltro, neanche si tratta di replicare gli schemi di Reagan o della Thatcher, in uno scenario storico e ambientale del tutto diverso dagli anni Ottanta - nessuna “macelleria sociale”, è ovvio che la tutela dei più deboli dev'essere garantita. Solo, la disastrosa situazione economico-finanziaria del Paese - con il debito pubblico arrivato a 1.900 miliardi di euro, il 120% del Pil - dimostra come la leva fiscale finora utilizzata (e ancor oggi replicata, al di là dei patetici giri di parole) per mettere una pezza ai nostri disastrati conti risulti del tutto inadeguata. Certo, per ridurre l'intrusione impositiva dello Stato e mantenere l'indispensabile spesa sociale, è però necessario ridurre finalmente spese eccessive e sprechi ormai intollerabili. Anche anticipando l'avvio di riforme di cui si parla da tempo immemorabile, e scavalcando le resistenze corporative. Sarebbe l'ora. (Antonio Martino, intervistato da Barbara Romano, indice un corteo anti-tasse a cui invita anche Silvio Berlusconi, ndr). MISURE STRUTTURALI E dunque, vediamo di elencare quelli che potrebbero essere i punti di partenza di un programma dell'ipotetico partito. Che avrebbe come proposito principale e dichiarato la riduzione delle aliquote fiscali a due, 23 e 33 per cento. Il problema centrale è noto: dove reperire le risorse che possano sostituire le minori entrate fiscali. Non misure una tantum ma riforme strutturali, che durino nel tempo. E allora spuntiamo subito un capitolo certo non decisivo ma simbolicamente essenziale: la riduzione dei pletorici livelli burocratico- amministrativi. Un esempio a caso? La soppressione delle Province. E non si dica che si vuol licenziare i 61mila dipendenti dei 107 enti in questione, che non è vero. La poltrona la perderebbero i 4.200 politici provinciali. Ma, soprattutto, si risparmierebbero gli oltre quattro miliardi all'anno necessari per tenerle in piedi, al di là dei compiti che svolgono. Tanto per dare un ordine di grandezza: con il famigerato contributo di solidarietà il governo pensa di recuperare più o meno la stessa cifra. Naturalmente a questa misura s'accoppierebbe la drastica riduzione dei parlamentari, con contestuale cancellazione dei più intollerabili privilegi della “casta”. E se è vero che la demagogia certo non manca, quando s'affronta l'argomento, è anche innegabile che la riconquista di uno straccio di credibilità da parte della nostra indifendibile classe politica rende necessarie decisioni del genere. (E già che di caste si parla, si potrebbe anche metter mano agli sgravi fiscali a suo tempo concessi alla Chiesa cattolica, soprattutto per quelle attività che riguardano l'ambito commerciale più che quello religioso: in ballo ci sono altri quattro miliardi, e le anime di tutti gli altri contribuenti ne risulterebbero certo alleggerite). LA PREVIDENZA Detto questo, parlando di tagli necessari e con una spesa pubblica lievitata di oltre il 50 per cento in dieci anni - dai 444 miliardi del 2000 ai 670 del 2010, e si tratta solo delle spese correnti, investimenti esclusi -, ecco, le grandi questioni da affrontare sono due: pensioni e sanità. Per quanto riguarda le prime, la situazione è evidentemente insostenibile: nel 2010 la spesa previdenziale si è mangiata complessivamente circa il 15 per cento del Pil (193 miliardi), e l'Inps ha cominciato a erogarne 175mila di nuove, per un'età media di 58,3 anni per i dipendenti e 59,1 per gli autonomi, tre anni al di sotto della media dei Paesi censiti dall'Ocse. Sarebbe dunque auspicabile anticipare la fatidica quota 100 (35 anni di contributi, 65 di età), che secondo lo schema attuale sarebbe raggiunta nel 2015. E naturalmente attuare fin da subito criteri davvero stringenti per le cosiddette “pensioni baby” - ce ne sono ancora 536mila attive, e costano 9,5 miliardi l'anno. E attenzione, perché non si tratterebbe qui di agire sulle pensioni basse. Solo prendere atto che, tanto per dare qualche cifra, gli ultrasessantenni si avviano a diventare la metà della popolazione, e in Italia solo il 33 per cento delle persone fra i 55 e il 65 anni lavora - per dire, in Svezia o in Norvegia sono il 70 per cento. Situazione non più sostenibile, con l'aspettativa di vita che arriva agli 82 anni per gli uomini e a 85 per le donne. Per quanto riguarda la spesa sanitaria: 110 miliardi nel 2010, 214 nel 2014. Non si può più. In questo senso, ci sarebbe anche qui da far entrare subito in vigore i cosiddetti costi standard - in sostanza i tetti regionali di spesa - previsti dal federalismo fiscale per il 2013: secondo un calcolo del Sole 24Ore, i risparmi sarebbero nell'ordine dei 4-5 miliardi. E ancora: se, come sembra, le prestazioni gratuite non sono più sostenibili, si facciano pagare in proporzione al reddito, naturalmente escludendo le fasce svantaggiate. BENI IMMOBILIARI Altro punto importante: far finalmente fruttare il patrimonio immobiliare dello Stato. Calcolando quello fruttifero e le proprietà regionali, si arriva a 675 miliardi. E solo il 40 per cento rende qualcosa. Allora, l'idea è quella di costituire una holding in cui inserire il patrimonio in questione, e poi quotarla in Borsa, lasciando in mano pubblica una quota intorno al 30 per cento. Un'operazione che, secondo gli esperti, potrebbe fruttare anche trecento miliardi, facendo rifiatare l'asfittico bilancio statale e dando impulso a una miriade d'iniziative private, che così rivitalizzerebbero il bene comune finalmente mettendolo a frutto. Infine, le cosiddette agevolazioni fiscali “ad aziendam”, rivolte a specifici settori o imprese e deliberate in determinate condizioni, ma che poi sono rimaste: i tecnici del Tesoro, nelle scorse settimane, ne hanno individuate 476, per un gettito superiore ai 450 miliardi. Se ne potrebbero sospendere almeno un centinaio, con conseguente recupero di risorse. di Andrea Scaglia