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Nostalgia Finiti i sogni del Cav e del Senatùr. Bossi, il tuo federalismo così è già morto

Berlusconi non sarà mai il padre della rivoluzione fiscale. Ora comanda la Bce, l'unico leader che non risponde agli elettori

Andrea Tempestini
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Ricordate? Qui finisce l'avventura del signor Bonaventura. Dove il Bonaventura in questione ha le sembianze di Berlusconi, ma anche di Bossi e se vogliamo pure di Bersani e tutta la compagnia. Che senso ha puntare sulla politica quando poi, in questo ultimo decennio, il più profondo intervento nelle viscere del Paese porta la firma della Banca Centrale Europea, cioè del governatore uscente Trichet e quello entrante Draghi? Voglio spingere al massimo sull'acceleratore del populismo: serve scannarsi sui programmi, serve spendere soldi per le elezioni se appunto chi muove i fili è una sovrastruttura (prendo a prestito un termine marxista) indipendente alla variabile del consenso? Non entrerò nel merito della “manovra telecomandata” perché in questi giorni firme importanti lo hanno ben fatto su questo giornale, mi limiterò pertanto ad alcune valutazioni di ordine politico. 1. La manovra è il capolinea della Seconda repubblica. Il Cavaliere si può scordare di passare alla storia come il grande riformatore, come colui che – noi non ce lo siamo scordato – al pari della signora Thatcher avrebbe riformato il fisco italiano e quindi anche l'impalcatura burocratico-amministrativa italiana. Con la batosta in arrivo nessuno più crederà a una sola parola del premier in tema di tasse e dintorni. Poteva fare una cosa diversa? Certo che sì. Ha avuto una lunga stagione politica per centrare l'obiettivo: doveva avere il coraggio di tirar dritto, non l'ha avuto e la pagherà elettoralmente, purtroppo trascinando tutto il centrodestra. Certo c'è stato l'11 settembre e poi la grande crisi e poi tante altre sfighe globali, ma se non si hanno idee radicali e la forza di portarle avanti è difficile passare poi alla Storia (a meno che Berlusconi non pensasse di passare alla Storia per il Ponte sullo Stretto di Messina...). 2. Capitolo Umberto Bossi. Davvero il Senatur crede di poter riprendere il bandolo del federalismo fiscale dopo l'ennesima randellata sul cranio degli enti locali? Il federalismo finisce qui: a furia di cincischiare con secessione, devolution e quant'altro, le sole mosche che restano in mano sono quei tre sottoministericchi a Monza che nessun padano aveva mai richiesto. La Lega era una grande speranza di cambiamento: Bossi aveva capito che il bubbone centralista cresciuto a dismisura con le spese folli degli anni Ottanta frenava lo sviluppo delle imprese e del tessuto settentrionale, le cui richieste avevano per la prima volta trovato forza politica sui tavoli romani. In più il Carroccio aveva puntato sulla filiera dei Comuni e delle Regioni, scommettendo sulla loro efficienza nel dare risposte al territorio. Ebbene, il maggior amico del Carroccio – Giulio Tremonti – ha tarpato le ali agli enti locali sfilando anno dopo anno sempre maggiori risorse. Morale, ha ragione Formigoni: il federalismo fiscale così si avvia su un binario morto. Aggiungo un'ulteriore provocazione: qual è il criterio per cui si nega la soppressione delle Province ma si dice sì a una manovra che sottrae ossigeno a tutti gli enti locali, primi attori del federalismo fiscale? 3. Tremonti. Aveva centrato molte analisi e lo aveva fatto da studioso. Ha chiesto carta bianca, l'ha ottenuta e ora capitola sotto il rullo compressore di Trichet e Draghi. A cosa è servito allora lavorare di cesello, se ora l'Europa impone il machete? Il superministro dell'Economia in un batter di ciglio si ritrova sottosegretario. 4. Se Atene piange Sparta non ride. Sparta è il principale partito di opposizione, il Pd. La girandola di dichiarazioni evidenzia il cortocircuito della politica italiana. Bersani chiedeva di anticipare il pareggio di bilancio, chiedeva liberalizzazioni e privatizzazioni, chiedeva in poche parole molte delle cose che il medico Bce ha prescritto al malato italiano. Per un partito che si definisce riformista ed europeista è difficile non allinearsi a un decreto rafforzato – tra l'altro - dal sigillo quirinalizio. Le risposte del Pd sanno tanto di beghe tra comari. 5. Cosa poteva fare Berlusconi? Intanto, come scrivevo sopra, poteva anzi doveva sfruttare il consenso di questi anni per realizzare quelle quattro cose che gli elettori avevano chiesto. Fisco, sburocratizzazione e dimagrimento della politica in primis. Se gli stessi soggetti che quindici anni fa diedero la spinta a Forza Italia e alla Lega sono oggi furibondi è perché non hanno trovato benefici dall'allora investimento politico. Fino a poco tempo fa ce la cavavamo dicendo che non c'erano alternative poiché le ricette proposte dal centrosinistra erano pessime; ora onestà ci impone di dire che non vedo quali siano le differenze sostanziali con la stagione di Visco e soci. Un anno fa Berlusconi, dopo la rottura con Fini, avrebbe dovuto chiedere le elezioni anticipate. Non l'ha fatto. Pochi mesi fa, invece di inseguire Scilipoti, avrebbe dovuto allargare la maggioranza all'Udc persino – bestemmia! – a costo di lasciare la poltrona di presidente del Consiglio riservandosi il “solo” ruolo di leader del centrodestra. Non l'ha fatto. Poteva, infine, benedire un governo tecnico che s'accollasse la mazzata. Non l'ha fatto, per fare un dispetto a Tremonti. 6. Ora – e chiudo – il problema dell'alternativa non si pone nemmeno più: non governa Berlusconi, non governa il centrosinistra. Comanda il governatore della Bce, l'ultimo leader europeo che non deve rispondere a nessun elettore. Potere allo stato puro, potere dei mercati. Ha vinto ancora una volta la grande finanza. Ha perso la politica. Non ne sarei così contento. di Gianluigi Paragone

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