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Paese rischia di falire, ma tra veti e risse è la solita Italia

Nessuno rinuncia al proprio orticello: né il governo, né l'opposizione e nemmeno i sindacati che pensano solo alle pensioni

Andrea Tempestini
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È da più di cinquant'anni che la classe dirigente italiana, per quanto si sforzi (e cioè molto poco), non riesce a liberarsi dell'aforisma che le cucì addosso Ennio Flaiano: «La situazione politica in Italia è grave ma non è seria». Nemmeno stavolta si fa eccezione, malgrado non sia così remoto il rischio che il Paese vada in default, cioè non riesca più a pagare i propri debiti. Ecco, se qualcuno si illudeva che lo spettro della Grande Depressione avrebbe fatto ravvedere chi rappresenta gli italiani al tavolo delle decisioni, si è già dovuto ricredere. La definizione della manovra che dovrebbe garantire gli investitori e le istituzioni internazionali della serietà delle nostre intenzioni è avvolta da quell'aria di improvvisazione e dilettantismo già annusata tante volte in passato, chiunque fosse al governo. Le proposte abbondano, alcune sensate e altre perniciose, ma manca l'unico ingrediente davvero indispensabile: la chiarezza. Vale per i ministri, per i rappresentanti delle parti sociali, per i leader della maggioranza e quelli dell'opposizione. Non si è ancora capito, tanto per iniziare, quanti soldi servono. Quando ieri, durante il confronto con i sindacati, Giulio Tremonti ha detto che «occorre ristrutturare la manovra» da 48 miliardi di euro approvata in luglio, nello stanzone si è creato il panico. I presenti hanno capito che il provvedimento approvato poche settimane fa dal Parlamento è già vecchio e che occorre irrobustirlo con altre norme. Si parla di nuovi interventi per 8-10 miliardi, che andrebbero ad aggiungersi ai 20-25 necessari per anticipare al 2013 il pareggio di bilancio. Il conto totale, rigorosamente non ufficiale, porterebbe la mazzata in arrivo a quota 30-35 miliardi. Così come resta da definire l'altro dettagliuccio: chi paga? La riforma previdenziale, ovvero il blocco degli assegni di anzianità e l'innalzamento a 65 anni dell'età pensionabile per le dipendenti del settore privato, pareva in dirittura d'arrivo. Poi il ministro Maurizio Sacconi ha detto che sulla revisione delle pensioni «allo stato non c'è nulla». E Umberto Bossi (lo stesso che il giorno prima aveva ammonito che «bisogna fare le riforme») ha avvisato gli alleati e il suo amico Tremonti che invece no, la riforma non si farà: «Finché c'è la Lega le pensioni non si toccano». Certo, il leader leghista è specializzato nel lanciare proclami dirompenti e poi ripiegare su posizioni più accomodanti. Lo si è visto con il rifinanziamento delle missioni militari all'estero e con ogni probabilità finirà così anche stavolta. Intanto, però, tutto si è fermato in attesa di capire cosa frulla davvero nella testa del Senatur. Poi c'è l'ipotesi di mettere un'imposta sui patrimoni. Tremonti, pur senza troppi entusiasmi, l'ha accarezzata insieme alla Lega. Ma stavolta sono insorti quelli del Pdl, a partire da un certo Silvio Berlusconi. Due pretoriani del Cavaliere, Giorgio Stracquadanio e Osvaldo Napoli, sono subito balzati oltre le linee nemiche per dire che una cosa simile non l'avrebbero mai votata. In privato, tra colleghi di partito e di governo, sono volate minacce pesanti e parole assai poco educate. Risultato: il ministro Gianfranco Rotondi e il capogruppo della Lega, Marco Reguzzoni, hanno dovuto escludere l'introduzione di qualsiasi tipo di patrimoniale. L'incertezza è tale che il ministro dell'Economia, non sapendo nemmeno lui dove si andrà a parare, ha commissionato ai tecnici simulazioni su ogni intervento possibile, inclusi innalzamento dell'Iva, aumento dell'Ici sulla seconda casa e ritocchi delle aliquote che gravano sui redditi. A questo tripudio del caos, ancora una volta, hanno dato il loro fattivo contributo l'opposizione e i sindacati. Pier Luigi Bersani e i suoi si guardano bene dal proporre alternative ai fumosi progetti del governo. In compenso il segretario del Pd ha già detto no a una delle poche idee serie su cui la maggioranza sembra aver raggiunto l'accordo: modificare l'articolo 81, inserendo nella Costituzione l'obbligo del pareggio di bilancio, utile a far capire che da adesso in poi non si può più scherzare. Mentre Susanna Camusso, appena uscita dall'incontro di palazzo Chigi, ha annunciato che intende mobilitare i suoi iscritti: sulla crisi economica e finanziaria non può mancare la rossa ciliegina di uno sciopero generale firmato Cgil. Della sola riforma in grado di alleggerire davvero il debito pubblico, la privatizzazione dell'immenso patrimonio immobiliare e mobiliare che fa capo allo Stato centrale e periferico, in grado di portare in cassa tra i 300 e i 400 miliardi di euro, ovviamente nessuno parla, né a destra né a sinistra: la classe politica ormai considera municipalizzate e case degli enti previdenziali un benefit a propria disposizione, al quale non ha alcuna voglia di rinunciare. Così, tra un veto incrociato e una minaccia di portare tutti in piazza, l'Italia naviga allegramente a vista in mezzo alla tempesta dei mercati. La speranza è che la decisione di rinviare a dopo Ferragosto il consiglio dei ministri chiamato ad approvare la manovra serva a ridurre la confusione e non ad aumentarla. Ma viste le premesse sarà meglio non illudersi. di Fausto Carioti

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