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"Montanelli ora icona anti-Cav prima fascista da bruciare"

Indro oggi è celebrato dai figliocci di chi lo riteneva un reazionario. Nel '70 se lavoravi con lui eri un appestato / MUGHINI

Costanza Signorelli
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Per me, che a un certo punto della mia vita e della mia formazione l'ho avuto come un padre, è come se non lo riconoscessi appieno nella buona parte delle celebrazioni giornalistiche che gli vengono dedicate a dieci anni dalla morte. Parlo di Indro Montanelli. Perché il Montanelli che balza fuori dalle pagine targate 2011 è tutto modellato sul segmento ultimo, ma forse non il più decisivo, della sua vita, quello che trasformò il direttore e fondatore di un Giornale negli anni '70 sopravvissuto grazie alle erogazioni dell'imprenditore milanese Silvio Berlusconi in un nemico accanito di un Cavaliere che nel frattempo era entrato in politica. I fatti. Fino all'apocalisse del 1992-1994, e dunque alle elezioni politiche che videro Berlusconi mettersi alla testa della coalizione di centro-destra, Montanelli era stato il dominus assoluto del quotidiano lombardo che aveva fondato nel 1974, dopo essersi congedato da un Corriere della Sera che lui giudicava troppo inclinato verso la sinistra. Già alla fine degli anni '70 la proprietà del quotidiano era interamente nelle mani della famiglia Berlusconi. Da quella proprietà erano di certo investite le pagine che si occupavano della nascente televisione commerciale, ma per il resto Montanelli faceva il buono e il cattivo tempo. Solo che, a partire dall'estate del 1993, e mentre stava andando a brandelli quella Prima Repubblica di cui Montanelli era figlio dalla punta dei piedi fino alla cima dei capelli, Berlusconi voleva che il quotidiano di via Negri lo appoggiasse nel modellare Forza Italia e farla debuttare nella politica di prima linea. Inclassificabile Ebbene, se c'era un giornalista inadatto alla funzione miserevole di far da sicario al suo editore, quello era Montanelli. Tutta la sua vita era stato imprevedibile, non facile da classificare. Da giornalista fascista era stato radiato dall'Ordine per quanto erano controcorrente alcune sue corrispondenze dall'Africa. Da anticomunista di ferro aveva scritto che quella di Budapest 1956 era una insurrezione di comunisti contro altri comunisti. Da giornalista del tempo in cui le verità del fascismo erano verità assolute, di calci negli stinchi del regime Montanelli ne aveva sferrati non pochi. Da giornalista del tempo in cui l'antifascismo era divenuto una religione e una mitologia, s'era dato come pseudonimo quello di un campo di reclusione dove erano stati rinchiusi i "vinti" dell'aprile 1945. Un Montanelli che nel 1994 si trasforma in cassa di risonanza del Berlusconi leader politico? Da non pensarci neppure per un attimo. E difatti lui se ne andò dal quotidiano che per vent'anni era stato tutta la sua vita e di cui aveva detto che ne sarebbe uscito solo in orizzontale e con i piedi davanti. Fin qui il Montanelli vero, il Montanelli reale, il più grande giornalista italiano del Novecento. Non che il Montanelli successivo, quello che dà vita al quotidiano La Voce e che ne fa un'arma puntata tutti i giorni contro il Cavaliere, non sia vero e reale. Dico solo che non è il Montanelli più decisivo, e a parte il fatto che il giornale andò a picco dopo pochi mesi, segno che il pubblico di Indro non lo aveva seguito per quella strada. Padronissimo Montanelli di pensare e scrivere di Berlusconi tutto quello che scrisse sulla Voce, ed erano cose terribili (ripubblicate in un recente volume della Rizzoli, cui Massimo Fini ha apposto una intelligente prefazione). I senza memoria Meno legittima l'iscrizione a pieno titolo di Montanelli all'industria dell'antiberlusconismo, un coro dove la sua voce ci sta così e così. Meno legittima comunque nel momento della celebrazione di un destino e di una carriera, la carriera tutta intera di questo maledetto toscanaccio. Grottesco poi quello che di Montanelli pensano e scrivono in tanti della sinistra odierna, loro che sono figli di un mondo politico e culturale che per decenni ha reputato Montanelli "un fascista" ributtante, un giornalista da maledire e bruciare. E che dell'esistenza di quel mondo fingono di dimenticarsi. Parlo di cose che ho sperimentato sulla mia pelle. Era successo che alcuni di noi che venivamo dalla sinistra demmo vita nel 1983 a un mensile revisionista ante litteram, Pagina. Cercavamo piste inedite, volevamo uscire dai recinti e dalle contrapposizioni tradizionali, mettere assieme il diavolo e l'acqua santa. Altro non era che mettere assieme il diavolo e l'acqua santa scrivere «una lettera aperta» a Montanelli, in cui lo dicevamo chiaro e alto quanto lo ammirassimo, borghese e anticomunista com'era. E siccome quella "lettera" la scrissi io, ed era la primissima volta che gente con un curriculum di sinistra facesse un tale elogio di Montanelli, dopo alcuni mesi lui mi telefonò e mi offrì una rubrichetta sul suo quotidiano: "L'invitato". Non che le opinioni del giornale e le mie collimassero, un po' com'è oggi della mia collaborazione a Libero. Solo che questa diversità lui la giudicava vitale. Ebbene a quel tempo, e nel mondo generazionale e professionale che era stato il mio, dire Montanelli e del Giornale era come bestemmiare in chiesa. "Ma come fai a collaborare con un giornale fascista come quello?", mi chiese una volta una mia amica. Un altro "montanelliano" di ferro era Cesare Marchi, quello che ultrasessantenne era stato scoperto alla Rizzoli da Edmondo Aroldi, il più grande editor italiano degli ultimi trent'anni. Mi raccontò una volta che nella cittadina di provincia veneta dove viveva era per lui un problema trovare e comprare una copia del quotidiano di Montanelli: perché molti edicolanti (di sinistra) si rifiutavano persino di esporlo. Potrei continuare così per pagine e pagine. Il pugno di Romeo Un fascista ributtante. Un quotidiano che aveva la lebbra e non andava nemmeno toccato. Uno dei suoi collaboratori più illustri, il professor Rosario Romeo, che nel 1977 si sente dare del fascista da un suo collega dell'università di Roma e lo stende con un cazzotto ben diretto. E guai a nominare a quell'epoca i maestri di Montanelli, il fascista di sinistra Berto Ricci (che andò a morire da volontario in Africa) o Giuseppe Prezzolini, che fascista non lo era nemmeno un poco ma nemmeno un poco era antifascista. Questo era il tempo del Montanelli più vero, più decisivo, più contraddittorio e dunque più vitale. Questi erano gli anni. Queste erano le parole. Questi erano i recinti e le contrapposizioni degli anni Settanta e Ottanta. Anni in cui io di cazzotti ne avrei dovuto dare un giorno sì e l'altro pure: e non certo perché fossi divenuto di "destra", ma solo perché avevo cominciato a trovare insopportabile la retorica "di sinistra". Esattamente come oggi. Oggi che di piste e di parole nuove ne avremmo bisogno di tutti. di Giampiero Mughini

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