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Pci, per conquistare la cultura sfruttò la ricetta dei fascisti

Biblioteca Feltrinelli, Fondazione Gramsci e Istituti della Resistenza: ecco come i rossi hanno egemonizzato la storiografia

Andrea Tempestini
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Occuparsi di Mazzini nel 1905 era considerato, per uno storico, una indebita concessione alla contemporaneità. Il paradossale rimprovero fu mosso da uno storico di valore, Pasquale Villari, a una giovane promessa della storiografia, Gaetano Salvemini, perché quest'ultimo, occupandosi di Mazzini, rischiava di «turbare», con «le passioni, le agitazioni politiche», quella che veniva definita «la serenità della scienza». Se è vero che oggi ci appare sostanzialmente immotivata la preoccupazione di Villari, è anche vero che l'ampia e approfondita ricerca di Gilda Zazzara (La storia a sinistra.  Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Laterza, pp. 196, euro 20) offre più di uno spunto per una riflessione sui danni operati nella storiografia da una visione ideologizzata e militante. Dopo la Seconda guerra mondiale, il cambio di segno fra la storiografia di regime e quella della nuova Italia post fascista non avvenne tanto nell'ambito di una riacquisizione dei principi di laicità della storia e della sua indipendenza dalla politica. Si stabilì, piuttosto, un filo conduttore metodologico fra la storiografia impegnata fascista e quella post fascista che si riassunse in una funzione strumentale della storia, verso l'affermazione di un suo ruolo attivo in politica. Questo aspetto si manifestò bene nell'importanza che, dopo la guerra, ebbe l'organizzazione culturale. Se Giovanni Gentile aveva inventato, durante il fascismo, l'Istituto fascista di cultura, che aveva il compito di indirizzare l'intera cultura verso gli obiettivi del regime, analoga funzione, dopo il 1945, ebbero i tre istituti dei quali la Zazzara parla diffusamente e che costituirono la risposta politica contro l'uso neutrale della storia, e cioè la Biblioteca Feltrinelli, la Fondazione Antonio Gramsci e l'Istituto per la storia del movimento di Liberazione. INTELLETTUALI SUCCUBI Le tre istituzioni, che ebbero una importanza determinante nello sviluppo di un certo modo di fare storia in Italia, nacquero quasi contemporaneamente, fra il 1949 e il 1951. La Feltrinelli, creata a Milano «con il pieno sostegno di Togliatti», aveva come obiettivo quello di fare della storia del movimento operaio l'«autentica storia d'Italia». La Fondazione Gramsci, in stretta dipendenza dal Pci, aveva lo scopo di dedicarsi  alla «opera sistematica di revisione dei valori storici e culturali del nostro popolo». Gli Istituti della Resistenza, infine, nascevano in ambito azionista e avevano il compito di salvaguardare la memoria, raccogliendo documentazione storica e promuovendo la ricerca sulla guerra di Liberazione. Il ruolo del Pci fu determinante, sia come indirizzo politico-culturale, sia per una funzione censoria: in un caso si trattava di contrastare la scarsa funzionalità politica degli studi di Movimento Operaio, la rivista della Feltrinelli, definiti nel 1952 «filologici e corporativi»; in un altro caso, nel 1954, si trattava di indirizzare un po' rudemente gli storici del Gramsci a un ridimensionamento del ruolo dei socialisti, come fece Arturo Colombi, l'ex muratore diventato responsabile della sezione ideologica del Comitato Centrale. In sostanza, il problema era l'autonomia della ricerca e il contrasto fra il metodo storico e la finalità politica. Ciò che colpisce non è ovviamente il fatto che il Pci si servisse degli intellettuali per penetrare meglio nella società; il fatto sorprendente fu la reazione degli storici. Che, come descrive l'autrice, fu molto morbida, fra le righe, preoccupata di evitare rotture con il vertice del partito. E ciò non tanto, come si potrebbe pensare, per quell'insopprimibile conformismo che contraddistingue la maggioranza degli intellettuali, quanto per la convinta adesione a un progetto rivoluzionario, il quale, evidentemente, ha delle regole e comporta rinunce anche dolorose. SELEZIONE ACCADEMICA Così accadde che personaggi di alto livello scientifico, da Saitta a Caracciolo, da Manacorda a Battaglia, da Ragionieri a Della Peruta, accettarono le imposizioni del Partito comunista, spesso rozze e lontane da qualsiasi preoccupazione scientifica. Per gli Istituti della Resistenza il discorso fu diverso. In questo caso furono proprio gli storici a porre il problema politico. Poiché l'istituzione era stata tenuta a battesimo da Ferruccio Parri, la linea politica era nelle cose: della Resistenza avrebbero potuto parlare solo quelli che vi avevano partecipato. Una tesi, questa, di nessuna consistenza scientifica, come è abbastanza intuibile. Qui è ancora peggio rispetto agli esempi visti prima: non c'è un ordine di partito, quanto piuttosto la definizione di una serie di regole di autoconservazione e di difesa innanzitutto dalla storiografia, in modo tale che una inopinata storicizzazione neutrale e scientifica non vanificasse il quadro agiografico della Resistenza. Ed è evidente che questa tesi, lo riconosce l'autrice, costituisce il presupposto ideologico alla mancata storicizzazione della Resistenza nei primi 50 anni del dopoguerra. La Biblioteca Feltrinelli, gli Istituti della Resistenza e l'Istituto Gramsci, quest'ultimo con la fondamentale collaborazione della casa editrice Einaudi, svolsero una determinante funzione politica ed egemonica: intanto selezionarono il mondo universitario, condizionando l'accesso all'accademia; inoltre indussero gli storici a svolgere progetti di ricerca legati strettamente alle finalità degli istituti; infine, funsero da vero e proprio controllo sull'ortodossia politica dei docenti. ATENEI EMARGINATI La presenza determinante e significativa degli istituti culturali in Italia ha svolto una funzione importante di supplenza rispetto alle Università, ma non si può negare che tale azione abbia contribuito a impedire che l'Università diventasse, negli studi umanistici e, in particolare in quelli storico-filosofici, il centro vero della ricerca, come è successo nel resto dell'Europa. Zazzera ha realizzato un bel volume sulla “storia a sinistra”. Non sarebbe però riuscita, e non per colpa sua, a realizzarne un altro sulla storia al centro o, ancor meno, sulla storia a destra. E questo è stato ed è uno dei maggiori problemi della cultura italiana. di Giuseppe Parlato

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