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Mughini: l'ossessione per il Cav ha ucciso il femminismo

Per il movimento rosa Silvio è il simbolo del maschio prevaricatore. Ma questo non c'entra con la vera dignità

Giulio Bucchi
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Duemila o forse di più le donne che hanno fatto irruzione ieri a Siena a rendere ancora più bella la magnifica città toscana (e dove resteranno ancora oggi). Le ha convocate il gruppo di “Se non ora quando”, un gruppo neofemminista che il 13 febbraio scorso aveva mobilitato in tutta Italia un oceano di donne in difesa della dignità del femminile, un femminile che loro giudicavano particolarmente offeso e calpestato dal comportamento di Silvio Berlusconi, dalle sue sue cene in cui (a detta della procura di Milano) le ragazze da lui invitate avevano il ruolo precipuo di spogliarsi ed esibirsi. Le donne di “Se non ora quando” lo ripetono con orgoglio, con rabbia, a voce molto alta: «Ma è possibile che a questo sia ridotto il ruolo di una donna?». Lo gridano nei loro cortei, nei loro articoli, nei loro dazebao. Non so dire esattamente se oggi sarà ancora questo il canovaccio portante del raduno femminile di Siena. Non so, forse più sì che no, se la politicizzatissima polemica anti-Cavaliere sia a tutt'oggi l'alfa e l'omega di questa ondata (in sé sacrosanta) di neo-femminismo. Certo è che nell'Italia attuale di ragioni le donne ne hanno una più di cento. Che il tasso di disoccupazione femminile sia ancor più drammatico di quello della disoccupazione maschile. Che le strade per arrivare al top delle professioni e delle gerarchie siano più irte per le donne che per gli uomini. Che sono numerosi i comparti del mercato del lavoro dove, a parità di prestazione, le donne sono meno pagate degli uomini. Che quando la cronaca ci offre episodi raccapricianti di violenza a esercitare quella violenza sono sempre gli uomini e sempre vittime le donne. Detto questo, e abbiamo detto molto, l'antinomia uomini-donne spiega sino a un certo punto i guai e il malessere della nostra società; meno che mai lo spiega il furibondo appiglio polemico di tante neo-femministe che vedono nella figura del Cavaliere la quintessenza di tutto ciò che va contro il femminile e lo umilia. Voglio dire che c'è il femminismo - quella sfida del femminile che è salutare e indispensabile a noi uomini - , ma c'è anche la retorica del femminismo. Ci sono le generalizzazioni di maniera, l'uso ossessivo dell'antinomia uomo-donna, gli scenari macchiettistici. Ne posso parlare liberamente, perché in materia non ho scheletri nell'armadio. Sul treno lentissimo che ieri mi ha riportato a Roma da Genova, ho letto per ore e ore gli articoli che annunciavano il raduno di Siena e le sue ragioni. Ma davvero, come ha scritto l'ottima Benedetta Tobagi sulla Repubblica, noi maschi del '68 reputavamo che se una donna «non la desse a tutti i compagni» altro non era che una «frigida borghese»? Voglio assicurare alla figlia del mio caro amico Walter Tobagi che se uno dei miei amici di allora avesse pronunciato questa frase lo avrei preso a calci in quel posto. Siamo stati acerbi e grezzi, a letto eravamo scadenti. Ma non eravamo - non lo erano tutti - così volgari, talmente miserevoli. Così come allibisco quando leggo, nella pagina successiva del quotidiano romano, un articolo dell'editorialista e scrittrice americana Margaret Dowd, in cui lei elenca una sequenza di raccapriccianti serie televisive americane dove le donne non fanno altro che mostrare culi e cosce e dov'è tutto un fiorire «di battute volgari studiate per attirare i maschi». Noi maschi così irresistibilmente attratti dalle «battute volgari»? Ma che uomini incontra e frequenta la pur valorosa giornalista americana? Oppure l'articolo, questo sul Fatto, in cui Wanda Marra elenca le ragioni che hanno spinto le donne a fare irruzione a Siena, la loro «enorme bandiera» di recriminazioni e problematiche. Solo che anche lì a farla da padrone è la polemica contro il presidente del Consiglio e dunque il riferimento alla vicenda Ruby. Una vicenda la cui protagonista, permettetemi di dirlo brutalmente, non era una che traboccava di dignità femminile. Detto questo, i tribunali faranno il loro lavoro. Solo che né il femminismo né il neofemminismo c'entrano niente con questa vicenda. (E meno male che sui giornali letti ieri su quel treno che non finiva mai la sua corsa c'era, sul Foglio, un articolo di Annalena Benini splendente di intelligenza. La migliore giornalista italiana di quelle sotto i  40 anni, Annalena non usa neppure di sbieco le generalizzazioni e le schematizzazioni più facili. Nei suoi racconti - in questo caso le vicende a dir poco scabrose di Dominque Strauss-Kahn - non è che le donne siano tutta grazia e innocenza, e gli uomini nient'altro che potenziali stupratori. «Ci sono le donne civette e ci sono gli uomini predatori», scrive Annalena. Le ho subito mandato un sms in cui le dicevo che nella mita vita di “civette” ne avevo conosciute tante e ne ero sempre entusiasta, di uomini che avessero il cipiglio del “predatore” nemmeno uno). E adesso che ho fatto trenta voglio fare trentuno. È successo esattamente come sto per raccontarvelo. Che ieri interrompessi la lettura dei quotidiani per leggere Visera, un libro di Varlam Salamov (l'autore de I racconti di Kolima) che Adelphi ha pubblicato pochi mesi fa. Salamov, che nove italiani e mezzo su dieci non sanno neppure chi sia, ha fatto in tutto e per tutto vent'anni di lager staliniano. Lo avevano acciuffato nel 1929, quando aveva poco più di vent'anni, e questo per avere diffuso fra i suoi amici il Testamento di Lenin che doveva rimanare occulto perché Stalin non ci faceva un figurone. Ebbene, dopo pochi mesi di lager, Salamov e un suo amico si mettono a scrivere un «esposto sulla condizione femminile nei lager» da consegnare al Comitato Centrale del Pcus. Lo racconta in una pagina del suo libro, una pagina che è un monumento alla terribilità della condizione femminile, alla specificità delle sofferenze femminili: «Condizione delle donne nei lager che era tremenda. Non potrò mai dimenticare il corpo di Zoja Petrovna, una dentista di Rostov condannata ex articolo 58 […] Durante il nostro trasferimento dell'aprile del 1929 venne fatta ubriacare, e poi fu spogliata e stuprata dal capo della scorta, Scerbakov. Alla luce del sole, sotto gli occhi di tutta la tradotta e delle decine di coimputati della donna, che cercarono di distogliere lo sguardo dalla porta spalancata sul letto sfatto dove venne gettata Zopja Petrovna. Scerbakov non fu il solo ad approfittarsene, ce ne fu anche per i bassi ranghi della scorta». Atroce. Scritto e raccontato da un uomo, questo sì in difesa della dignità femminile. E comunque, evviva le donne. di Giampiero Mughini

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