Festival Spoleto. Guerritore, l'11 settembre di Oriana: Fallaci trasformata in un'isterica da sedare
Monica fa passare per pazzi milioni di lettori
All'ingresso del teatro San Nicolò di Spoleto distribuiscono un cartoncino, una presentazione dello spettacolo Mi chiedete di parlare..., su cui si annuncia pomposamente: «Monica Guerritore è Oriana Fallaci». Invece no, Monica Guerritore non è Oriana Fallaci, benché sul palco, a tratti, la somiglianza sia impressionante. Semmai, è solo un pezzetto della Fallaci, quello che fa comodo ricordare. Quello buono per rintuzzare la retorica contro la guerra, quasi la scrittrice fiorentina fosse una «vispa teresa» qualsiasi, del tipo che lei proprio non sopportava. Quello utile per permettere alla cultura di sinistra di appropriarsene. È un compito arduo quello di ridurre a icona, imbalsamandola, la furente fiorentina. Bisogna dosare attentamente i termini, come sul cartoncino promozionale che ho in mano. Scrive Emilia Costantini, ideatrice del «progetto», di aver voluto raccontare «una combattente, che ha sempre coraggiosamente lottato. Contro il potere, l'ingiustizia, i soprusi, le imposizioni, ogni tipo di regole, contro le ipocrisie, i pregiudizi, i falsi maître a penser, i finti rivoluzionari, sempre pronta a sparare in faccia la verità senza riguardi, e soprattutto contro la guerra». Non c'è un nome. Non si dice che lei, nel Vietnam del Sud, se la prendeva con le bombe dell'esercito americano. Ma non si dice neppure che nel Vietnam del Nord era inorridita davanti alla mancanza di libertà del regime comunista. Figuriamoci poi se si citano le invettive contro l'islam. TANTI LUOGHI COMUNI Solo un elenco di luoghi comuni come il Potere, l'Ingiustizia. Viene un dubbio: ma Oriana era una giornalista o uno dei tre moschettieri? Le generiche categorie di cui sopra son quelle che s'applicano ai santi, e il modo migliore per neutralizzare una donna viva, vitale e pure piena di difetti come l'autrice di Insciallah è esattamente questo: ridurla a un santino. Così poi la si può sventolare in giro, rivendicando sempre il suo essere «donna», «corraggiosa», «contro» e tutta la caterva di banalità perfetta per un articolo d'elogio su Repubblica. La Guerritore, tuttavia, è decisa a far di peggio: salvare la «vera» Fallaci. Dal suo punto di vista, ha anche qualche ragione, ma la strada delle castronerie è lastricata di buone intenzioni. Infatti il suo obiettivo è più o meno il seguente: sostenere che Oriana era una donna sola, piegata dagli amori finiti male (il giornalista francese François Pelou, sposato a un'altra donna; il rivoluzionario Alekos Panagulis morto) e dalla mancanza di soddisfazione materna. «Non ha avuto figli, non si è curata, non ha avuto nessuna relazione realmente intima...», scrive. Una donna perduta, isolata dal mondo, che alla fine è impazzita sputando il suo odio in modo incontrollato e febbrile. Tutto ciò si riversa sul palcoscenico. Del resto la Guerritore è sola in scena, ha scritto il testo e cura la regia assieme a Enrico Zaccheo. Esordisce con i capelli lunghi, la pelliccia leopardata, un velo di rossetto, la sigaretta tra le dita. Le belle luci la rendono quasi identica alla Fallaci. Ma lei pretende d'essere Oriana, il corpo vivo sotto il guscio maschilizzante e disumanizzante dello «scrittore» che vive per essere padre e madre non di un bimbo, ma dei libri. Come se la Fallaci, per essere felice, avesse dovuto diventare una brava casalinga, e svuotarsi delle sue ambizioni. «Io sono nata nella guerra», dice e dagli occhi fulminano lampi di megalomania, di morte, di crudeltà a volte. Sembra l'inizio di un delirio già scritto. Una persona ferita dalle tante battaglie, dovrebbe essere. Però della prosa dolce e delle lacrime di cui si legge nei reportage dal Vietnam sull'Europeo, per esempio, nemmeno l'ombra. Solo durezza, necrosi. Si va avanti così, fra tirate metafisiche e qualche passaggio toccante, per esempio quando la voce fuori campo (che di solito pone alla protagonista domande sulla sua vita, anche un po' scontate) legge brani di Lettera a un bambino mai nato. E lì si scopre la sensibilità dell'autrice, che finora ci era stata negata. Poi, l'insulto. Oriana si ammala, diventa più sofferente e più anziana, respira a fatica. La Guerritore, nella recitazione, è eccezionale, anche se non resiste alla tentazione di denudarsi con la scusa di farsi un bagno, sarà un riflesso condizionato dai tempi dei vecchi film. Ed è bravissima a tramutarsi in una matta berciante quando si arriva a parlare dell'Undici settembre. Grida, sbraita, si lancia verso il pubblico. FOLLI ANCHE I LETTORI Deve intervenire l'assistente per trattenerla, la bracca ma lei si divincola, continua a urlare, sembra posseduta dal demonio. Crolla a terra. La fanno apparire come una demente, una pazza da rinchiudere, e come pazzia vanno archiviati i suoi ultimi libri, ne deduciamo, e con essi anche i milioni di lettori in tutto il mondo che li hanno amati. Sono errori di una donna ferita e mal vissuta. Invece basta leggerli senza esser viziati dall'ideologia per rendersi conto che sono ancora oggi d'una lucidità spaventevole. Non c'è nulla di folle o di malato. C'è rabbia, certo, ma c'è anche orgoglio. Però l'orgoglio, nello spettacolo (che ad aprile 2012 arriverà al Piccolo Teatro di Milano), viene tramutato nella pietà che si offre ai decrepiti. Le fasi finali, dopo poco più d'un'ora, vedono una Fallaci ormai stremata, completamente calva per via del tumore. L'hanno svuotata e seppellita. Segue il vilipendio di mito. Ieri a Spoleto si è tenuto il convegno Donna-Contro (ridagli coi luoghi comuni). Protagonisti, fra gli altri Giovanni Minoli e Lucia Annunziata. Sin dall'inizio si son messe le carte in tavola: «Potevamo parlare di La Rabbia e l'Orgoglio, ma andremo oltre». Già, oltre per tornare indietro e cancellare le tracce. Tra gli ospiti c'era anche Sandro Petraglia, sceneggiatore di vaglia, che realizzerà per la casa produttrice Fandango la fiction su Oriana (tutta in famiglia progressista, ovvio). «Non abbiamo ancora il nome del regista né dell'interprete, non sarà la Guerritore penso», mi dice. Lei, Monica, era presente. Guardava soddisfatta, come un capocantiere che contempli la demolizione di un rudere. Sembra quasi che ce l'abbiano fatta, lei e i colleghi progressisti, a fare a pezzi la memoria di Oriana. Ma basta uscire dal teatro e entrare in libreria per comprare Saigon e così sia e leggere il finale dell'introduzione: «Mi accorsi che era molto più onesto lasciare il racconto com'era (...). Eccolo, dunque. Ve lo do ben sapendo che irriterà chi non deve irritare, compiacerà chi non deve compiacere. Ma tale è il destino di chi fa il giornalista, obbedendo alla propria coscienza anziché agli interessi dei più». Figuriamoci se ce la fanno ad ammazzarla, una così. Alla Guerritore il delitto postumo non è riuscito. di Francesco Borgonovo