No-Tav, strade, ponti e le tv: che sinistra 'regressista'/FACCI
Ora fanno la guerra all'alta velocità, ma anche in passato i nostri "progressisti" hanno frenato qualunque miglioria
Giampaolo Pansa, ieri, ha raccontato che la sinistra non voleva neppure l'Autosole, altro che Tav: ed è una buona occasione per ricordare che la stessa sinistra era pure contro la televisione, contro l'automobile, contro la metropolitana, contro i grattacieli, contro i ponti e i sottopassaggi, contro l'alta velocità in ogni sua forma, contro i computer, contro l'automazione del lavoro, contro il part-time e in sostanza contro tutto ciò che ha fatto da traino alla modernizzazione. Non è chiaro per quale ragione, intanto, si definissero «progressisti». Nel caso dell'Autosole, la sinistra non l'approvava perché privilegiava i consumi individuali a discapito del trasporto pubblico: questa la tesi. Il 3 ottobre 1964, dopo l'inaugurazione dell'Autostrada, l'Unità scrisse questo: «Abbiamo l'autostrada, ma non sappiamo a che serve... è evidente l'impegno di spremere l'economia nazionale nella direzione di una motorizzazione individuale forzata... dimenticando che mancano le strade normali in città e nel resto del Paese». PRIVILEGI Sembrano i titoli dell'Unità circa il ponte di Messina. Lo schema è sì migliorato, ma non molto mutato: da allora a oggi ogni grande opera è stata inquadrata come un fumo spettacolare ma privo del necessario arrosto. Roba per pochi: «Velocità alte e comode», insisteva l'Unità, «sono soltanto per redditi più elevati». Quelli dei camionisti bulgari, per esempio. E non dite che sono polemiche datate, perché ciò scrisse l'Unità dell'8 gennaio 1977, quando il Pci era ai massimi: «Gli investimenti in autostrade hanno aperto una falla difficilmente colmabile nelle risorse del Paese, a detrimento di investimenti la cui mancanza determina continui danni economici ed ecologici». La magica parola, ecologia, era già stata requisita dalla sinistra non senza colpe di un centrodestra piuttosto vacante sul tema. Resta il delirio: «Mettere fine agli sperperi in una ragnatela di autostrade, dando rigorosa precedenza a investimenti sociali e produttivi, è il nostro impegno». Sempre l'Unità. Era il gergo sempreverde che andava a richiamare «un diverso modello di sviluppo». Quale? Mai capito. La mentalità è in parte rimasta. METRO'? DI DESTRA La sinistra progressista, nel dopoguerra, si era già opposta alla realizzazione della Metropolitana milanese; negli anni Sessanta, il tram era definito di sinistra e la metropolitana di destra: va da sé che anche le conseguenze di questo, oggi, separano lo status di certe città italiane da quello di altre metropoli europee. La sinistra progressista si oppose parimenti allo sviluppo urbanistico verticale (i grattacieli) e anche di questo le conseguenze sono note. Una volta tinta di verde, la stessa sinistra avrà modo di opporsi a tutti i progetti di Alta velocità ferroviaria, alla variante di valico Firenze-Bologna, alla realizzazione dell'aeroporto della Malpensa, al progetto Mose per salvare Venezia, per non parlare appunto del ponte sullo Stretto e di ciò che è successo coll'energia nucleare: eravamo il terzo paese del mondo per produzione, prima dello stop via referendum. Poi, se volete divertirvi, c'è la televisione. Nel 1954, a dir il vero, la nascita della tv italiana fu accolta con sospetto e freddezza non solo a sinistra: nessun quotidiano, infatti, a parte La Stampa, riportò la notizia in prima pagina. UN MONDO A COLORI Era già evidente che cosa avrebbe potuto determinare nei costumi di un Paese: negli Stati Uniti i televisori erano già trenta milioni, in Inghilterra tre milioni, la Rai in ogni caso vantava già centinaia di dipendenti. Un esordio in bianco e nero che forse contribuirà a ritardare di dieci anni quello della televisione a colori: fin dal 1967 la tecnologia fu ampiamente disponibile (apparteneva già a Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia, Giappone e persino, sì, all'Unione Sovietica) ma in Italia riaffioravano discorsi sui consumi individuali e collettivi: «La Tv a colori è caldeggiata dagli industriali e dalla Rai» titolava l'Unità del 14 settembre 1977. Vade retro: «La questione non è se tradurre in Italia la tv a colori, bensì quando introdurla… chiarire se il paese può sopportare questa spesa e quali vantaggi eventuali, se vantaggi ci sono, potrebbe dare alla nostra economia». L'arcano, oggi, pare risolto. Ma allora no: «Si tratta di capire e decidere», tuonava l'Unità, «se la tv a colori è conciliabile con la vigente necessità di case, scuole, ospedali». A parte il congiuntivo sbagliato, oggi forse è più facile requisire case e scuole e ospedali che non i televisori a colori. di Filippo Facci