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Apertura di Obama ai taliban. Il risultato: strage a Kabul

Karzai rivela le trattative di Washington, e subito gli estremisti, contrari all'accordo, rispondono con i kamikaze. Nove i morti

Andrea Tempestini
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Con un tempismo perfetto, ieri i Talebani hanno mandato quattro kamikaze a farsi esplodere in un ufficio della polizia afghana a poche decine di metri dal palazzo di Karzai, subito dopo che questi aveva annunciato: «Sia il governo, afghano sia  governi stranieri, fra cui quello statunitense sono stati impegnati in colloqui pace con i Talebani  nel corso dell'anno». È questa l'ennesima prova di come sia complesso l'intrico afghano, tanto che non è neanche possibile comprendere con certezza  – naturalmente non vi è stata nessuna rivendicazione – se l'attentato (che è costato la vita a 9 persone e il ferimento di altre 12) è stato messo a segno dalle fazioni dei Talebani impegnate nei colloqui di pace per alzarne il prezzo o se sia stato deciso dalle fazioni più intransigenti e più legate ad al Qaeda della confederazione tribale Haqqani. Questo secondo scenario è però più probabile, perché la dinamica dei fatti indica una chiara aperta volontà di ridicolizzare la capacità di controllo del territorio da parte delle forze di sicurezza afghane persino nel cuore di Kabul. Seddiqi Seddiqi, portavoce del ministero degli Interni, ha ammesso che il commissariato che è stato assaltato da uomini con abiti militari che portavano cinture esplosive,  si trova nel primo distretto della capitale afghana, in un'area commerciale del centro città, non lontano dal palazzo presidenziale e da altre sedi governative: «Il primo attentatore si è fatto esplodere all'ingresso del commissariato, altri due sono stati uccisi dagli agenti, mentre il quarto ha continuato a combattere». Nove le vittime complessive. Per quanto riguarda i colloqui di pace rivelati per la prima volta in modo ufficiale, da Karzai, il Dipartimento di Stato ha risposto con un secco “no comment” ai giornalisti che chiedevano conferma o smentita, ma è agli atti la recente dichiarazione del segretario Usa alla Difesa Robert Gates: «Saranno possibili colloqui con i Talebani a partire dalla fine dell'anno, ma a condizione che l'alleanza guidata dalla Nato compia significativi passi avanti sul terreno, con la conseguenza di mettere sotto pressione i ribelli». Certo è che a Washington è in corso un duro braccio di ferro sulla exit strategy dal conflitto afghano: Barack Obama aveva promesso di iniziare un lento ritiro dall'Afghanistan (3-4.000 militari) già a luglio e anche nella componente repubblicana del Congresso (come tra i candidati repubblicani alle prossime presidenziali) cresce la pressione per nulla “bushiana” e molto isolazionista, che pretende un disimpegno ancora più consistente e immediato di 15.000 militari. Ma i vertici militari Usa si oppongono con forza ad un ritiro prima di 18 mesi, sostenendo – come peraltro è evidente – che le forze di sicurezza di Karzai non sono affatto in grado di contrastare i Talebani irriducibili. La pesantezza di  un conflitto dall'esito ancora incerto, costato la vita di migliaia di militari occidentali e ormai decennale, non grava solo su Washington. A Parigi si  ipotizza sempre più apertamente un completo ritiro del contingente francese entro il 2011, prima dell'inizio della campagna elettorale per le presidenziali. In Italia, la Lega non nasconde da mesi la sua contrarietà all'impegno italiano che – per ora – non è stato messo in discussione solo per obblighi di coalizione. Comunque sia, l'Onu  ha diviso in due la lista dei ribelli afghani colpiti da sanzioni. una per i terroristi di Al Qaeda e una per i Talebani, con l'evidente intento di lanciare loro un segnale: «Se abbandonate il terrorismo, rientrerete nella vita civile e politica del Paese». di Carlo Panella

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