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Lega, piano per successione: Triumvirato Bossi e 'i Roberto' / di PIETRO SENALDI

Verso Potida: per Carroccio transizione soft. Le sparate dei ministri contro il Pdl servono a spianare la strada a Maroni e Calderoli

Andrea Tempestini
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Che dell'accoppiata uscita con le ossa rotte dall'uno-due Amministrative-Referendum a rischiare maggiormente la cadrega di leader di partito sia Bossi piuttosto che Berlusconi è qualcosa più di una sensazione nei palazzi della politica. E questo non solo perché, primarie o non primarie, con i suoi 190 milioni di euro di fidejussione sottoscritta a vantaggio del Pdl, Berlusconi è destinato a restare a vita il socio di maggioranza del centrodestra. Il motivo principale sta nella diversa ragione sociale dei due partiti: entrambi sono dalla nascita due monarchie assolute rette dal culto del fondatore e due partiti azienda votati all'inseguimento degli utili: ma se per il Pdl gli utili sono la conservazione del potere politico-economico di Berlusconi - l'unico capace di garantire un posto al sole a tutti -, per la Lega gli utili sono i voti e tutte le volte che le urne hanno lanciato un allarme, il Carroccio non ha esitato a cambiare linea e sbaraccare tutto pur di recuperarli. Certo, finora nella Lega questo non aveva mai portato nemmeno  a ipotizzare un avvicendamento del leader. Ma non siamo più nel 1998-99, quando i due potentissimi segretari regionali di Veneto e Piemonte (Fabrizio Comencini e Domenico Comino) furono espulsi dal partito  solo per aver criticato con veemenza  il Senatur, che non voleva allearsi con Forza Italia. Bossi mosse le sue armate: i due furono contestati violentemente, strattonati, e al congresso di Varese contro Comino volarono le sedie. Quando poi i due erano politicamente annientati,  poco più di un anno dopo, il Senatur strinse con Berlusconi quel patto d'acciaio che dura da dieci anni. Oggi il partito è più forte nei suoi uomini e più debole nel suo capo. E poi stavolta, non si tratta di un regicidio, per usare un termine scomodato per le primarie azzurre,  ma di un affiancamento cogestito dallo stesso Bossi, che resterebbe il leader carismatico, la bandiera, un primus inter pares a cui nessuno si permetterebbe mai di fare le pulci, ma non più il capo unico indiscusso. L'AMICO E L'ALLIEVO Il potere sarebbe infatti ripartito anche tra Maroni e Calderoli, l'amico e l'allievo. I due non si sono mai amati: uno ha iniziato negli anni '80 con l'Umberto, che gli ha sempre perdonato tutto - in particolare la sua autonomia -, l'altro è cresciuto seguendo passo passo il leader. Da tempo hanno stretto un patto d'alleanza che li vede opposti ai consigliori di Bossi, il famoso “cerchio magico” che allinea i capigruppo in Parlamento Reguzzoni e Bricolo, il tesoriere Belsito, la vicepresidente del Senato Rosi Mauro, e il Trota, e risponde direttamente alla moglie di Bossi. Maroni e Calderoli li accusano di aver creato quella cortina tra  il Senatur e la sua gente a cui si deve il recente calo di consensi e in parte sono riusciti a convincere di questo il grande capo, la cui dote politica principale resta il pragmatismo. Bossi è adorato dai militanti, ma sa di essere un uomo malato. Ha accusato il ko elettorale ma è uomo di grandi cadute e grandi risalite, i cali di consenso non lo hanno mai preoccupato oltre misura. È tuttavia rimasto  molto impressionato dalla parabola dell'amico Berlusconi e farà di tutto per non ripeterla. Per questo è quasi pronto a delegare un po' di potere. Le recenti uscite di Maroni e Calderoli contro il fisco, Tremonti, la guerra in Libia e Berlusconi, accusato di far prendere sberle alla Lega, sono da leggere per lo più in chiave di quanto sta succedendo all'interno del Carroccio. Sono dichiarazioni che in altri tempi avrebbe fatto Bossi e che ora toccano ai due delfini, un po' perché il Senatur non se la sente di pugnalare l'alleato né tantomeno l'amico Giulio, molto perché i due hanno bisogno di rafforzare i rapporti con la base, sempre più anti-berlusconiana, e di rassicurare gli amministratori locali padani, i quali devono sostenerli nella loro scalata, che per quanto decisa è ancora lontana dall'avere successo. VERITA' SUL PRATONE In tutto questo, l'appuntamento di domenica a Pontida sarà una tappa intermedia. Servirà a rincuorare la base, a riaffermare i principi forti del movimento, a far capire a Tremonti che a insistere nel perseguire a strada del rigore economico potrebbe ritrovarsi definitivamente senza l'appoggio padano e a marcare la distanza - a parole - ancora di più dal Cavaliere, al quale per il momento però la Lega non stacca  la spina. È troppo presto per voltare pagina: la transizione infatti è ancora in corso, il quadro politico non è ancora chiaro,  la sconfitta non è stata ancora metabolizzata e gli esperimenti di corsa solitaria tentati alle Amministrative hanno avuto esiti sconfortanti. Una cosa sola è certa però: senza un'inversione di rotta nell'azione di governo, Tremonti sarà mollato a se stesso e difficilmente Lega e Berlusconi si presenteranno insieme alle prossime Politiche. L'ipotesi di un ritorno alla legge proporzionale avanzata dal Carroccio è lì a dimostrare che i padani considerano il divorzio senza particolari rimpianti. Anzi; il messaggio del popolo leghista che vota in massa i referendum è stato interpretato in via Bellerio non tanto come una disaffezione reale verso il partito quanto piuttosto come un memento, utile a ricordare ai vertici che l'elettorato padano è fondamentalmente anti-politico, anti-casta e anti-Roma, votato all'anarchia piuttosto che alla berlusconizzazione. E da qui Bossi, Maroni o chicchessia ripartiranno. Senza nessuna intenzione di impelagarsi in governi tecnici lacrime e sangue. di Pietro Senaldi

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