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Per il Pd è resa incondizionata: in ginocchio da Nichi e Tonino

Referendum, i veri vincitori sono ancora una volta Vendola e Di Pietro. E i loro colonnelli esultano: "Adesso decidiamo noi l'agenda"

Andrea Tempestini
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Chi ha vinto? Al terzo piano del Nazareno, sede del Pd, non ci sono dubbi. Il clima è di totale euforia. La conferenza stampa si apre e si chiude con un applauso a Pier Luigi Bersani. «Abbiamo fatto la triplete», dice Matteo Orfini, con riferimento calcistico alle tre vittorie in fila dell'Inter di Mourinho: campionato, coppa nazionale e continentale. Così il Pd si intesta la sua «triplete»: vittoria alle elezioni amministrative del primo turno, del secondo e ora ai referendum. Bersani parla di «divorzio tra il governo e il Paese». Riconosce l'importanza dei movimenti da cui tutto è cominciato («i partiti non devono fare tutto»), ma ritaglia alla politica, al Pd, il compito di «tradurre» la domanda che è arrivata dai referendum: «Siamo pronti a esprimere un altro programma di politica energetica e a discutere sull'acqua a partire dalla nostra proposta di legge sull'acqua». A pochi chilometri da lì, però, davanti alla Bocca della Verità, dove Sinistra ecologia e libertà, Italia dei Valori, Verdi e comitati per il Sì stanno festeggiando, non c'è nessuna voglia di delegare al Pd la risposta politica, né di regalare a Bersani questa vittoria. Dice Paolo Cento, ora dirigente di Sel: «Questi referendum sono state come delle primarie del centrosinistra sul programma. È finita la stagione dei Bassanini e delle Lanzillotta, si apre un'altra era. Questa è l'agenda politica per il centrosinistra. E il Pd deve fare i conti con questi movimenti». E sbaglierebbe Bersani, mette in chiaro Alfonso Gianni, altro dirigente di Sel, «se pensasse che il problema è “erudire il pupo”.  Bisogna prendere atto che il baricentro si è spostato verso i movimenti e ripartire dalla legge di iniziativa popolare sul servizio idrico che hanno presentato i comitati». Un testo che parla di gestione affidata «esclusivamente ad enti di diritto pubblico» (art.5) , «sottratta al principio della libera concorrenza» e «finanziata  attraverso meccanismi di fiscalità generale» (art.4). Ben altro rispetto alla proposta di legge del Pd. Fa niente, oggi si festeggia. Nichi Vendola, da Bari, spiega che «vince l'Italia dei beni comuni, perde l'Italia delle lobby. Perde una lunga storia di ossessione privatizzatrice, perde un pezzo abbastanza pregiato dell'ideologia liberista che ha governato le sorti del mondo». Mentre Antonio Di Pietro chiede a Bersani di mettere nero su bianco un programma di coalizione che preveda, tra l'altro, la «fuoriuscita dalle esperienze guerrafondaie in giro per il mondo». Affermazione che risveglia i fantasmi dell'Unione, con la sinistra radicale che ogni volta faceva tremare il governo sulle missioni all'estero. Sul fronte interno, certo, il segretario del Pd si è rafforzato. Le verifiche sono rinviate sine die. «Se si vota in autunno o anche l'anno prossimo», si dice al Nazareno, «il candidato premier sarà lui. E se dovessero esserci le primarie, le stravincerà». Restano, però, le contraddizioni di un'alleanza per ora unita dal solito collante: mandar via Berlusconi. E i contrasti non sono solo programmatici. Vendola chiede le «elezioni anticipate». E lo stesso fa Bersani («facciano un viaggetto al Quirinale»), impaziente di tradurre in vittoria politica lo scontento nei confronti del governo. E consapevole che, se si vota presto, la premiership è sua. L'ipotesi di un governo di transizione, limitato alla riforma elettorale, è solo uno «spiraglio». Se c'è, bene. Ma se non c'è, «tanto vale andare a votare, senza mettere in mezzo cose che non esistono». Con buona pace di D'Alema. La fretta di Bersani, però, viene subito stoppata da Di Pietro: «Chiedere  le dimissioni dell'esecutivo», dice, sarebbe «una strumentalizzazione». E ancora più chiaro è Stefano Pedica, Idv, che diffida il Pd dal «cavalcare il risultato del referendum per chiedere le dimissioni del premier», visto che «solo l'Idv ha raccolto le firme per il referendum».  Mentre i grillini lanciano il loro anatema contro i partiti: «I cittadini non accettino strumentalizzazioni becere. Vedere i capibastone Bersani, Casini e Vendola chiedere le dimissioni del premier in risposta a referendum che hanno in larga parte osteggiato è deplorevole». Insomma, il vento soffierà anche. Ma dove e per portare chi, non si sa. di Elisa Calessi

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