(Botta). Il Cav 'licenzia' Giulio: "Lui non è indispensabile"
Berlusconi vuole subito la riforma del fisco: "I cittadini devono sentirne gli effetti entro il 2013". Rimandata manovra da 40 miliardi
«Tu non credere di essere indispensabile, qui nessuno lo è». È notte, a Palazzo Grazioli, quando Silvio Berlusconi punta il dito contro Giulio Tremonti. La minaccia, quella di fare a meno del ministro dell'Economia, arriva al termine di una concitata discussione tra i due. È una trama già vista, già sentita: il premier insiste chiedendo misure che rilancino il governo e il professore si tiene stretta la borsa: nossignore, il rigore, i conti in ordine. Berlusconi chiede ossigeno per l'economia, giù le tasse. Tremonti ha già in testa un provvedimento di lacrime e sangue. Una Finanziaria da 40 miliardi di euro in tre anni. Silvio non ne vuole sapere: «Faremo una manovra leggera in modo da non deprimere la crescita», il premier non esclude il voto anticipato all'anno prossimo e non intende strizzare gli elettori a pochi mesi dalle urne. «Vuol dire che il prossimo governo farà una manovra da 60 miliardi», fa spallucce il Cavaliere. Problemi di chi viene dopo. Tremonti scuote la testa, non se ne parla: c'è l'Europa. Ma a Berlusconi delle istituzioni comunitarie frega poco. Vuole riconquistare il cuore degli elettori, mica gli interessano i colletti bianchi di Bruxelles. Adesso il capo del governo è stufo delle resistenze del suo ministro: «Non sei d'accordo? Vuol dire che la manovra non porterà la tua firma...». Si rovesciano le parti: di solito è Tremonti che minaccia le dimissioni, ora è Berlusconi che intima a lui lo sfratto. Perché c'è anche dell'altro: Silvio vuole far partire da subito anche la riforma del fisco. E sempre in funzione elettorale: «I cittadini devono avvertirne gli effetti già con le dichiarazioni dei redditi del 2013», cioè a ridosso delle urne. Nei piani di Tremonti, invece, il nuovo fisco entrerebbe in vigore dopo la scadenza della legislatura, troppo tardi per orientare il voto degli elettori da questa parte. Silvio ha fretta. E non chiede la Luna, gli basta poco: «Semplificare le tasse è già un messaggio che va diretto alla gente, mentre ora la materia fiscale è solo per i commercialisti». Ma trova un muro: Tremonti è sordo da entrambe le orecchie, non vuole precorrere i tempi, il premier - dice lui - deve rendersi conto che la situazione economica è quella che è. Eppure Berlusconi non demorde: «Qui non comanda Tremonti». Lo stuzzica l'idea avuta da Antonio Martino, ieri mattina in visita a Grazioli. Quella ovvero di una riduzione delle aliquote che nasca come proposta di legge parlamentare, firmata da tutti i fondatori di Forza Italia. Un modo per scavalcare il ministero dell'Economia e affrettare i tempi. Berlusconi sospetta che dietro i no di Tremonti ci sia la volontà del superministro di mettersi in proprio affossando l'uomo di Arcore. Silvio guarda con preoccupazione al crescente feeling tra il professore di Sondrio e Napolitano (sublimato ieri da un incontro tra i due al Quirinale). E ai contatti che ci sarebbero stati con Massimo D'Alema. Ma il premier è anche convinto che Giulio continui a fare pressione su Bossi perché molli il Cavaliere e dia i voti del Carroccio a un governissimo a guida tremontiana: «Vuole mettermi in difficoltà, ma dove va? Non ha i numeri, sta sulle balle a tutti». In effetti. Pure i leghisti hanno un po' mollato Tremonti e la cosa è motivo di sollievo per Berlusconi. Però i padani, in questa fase, rimangono un oggetto misterioso, magmatico, imprevedibile. Per dire: mentre Bossi incontra il Cavaliere per decidere le mosse del governo, Calderoli ospita sul suo volo Luciano Violante e inciucia ad alta quota in tema di legge elettorale proporzionale. A che gioco stanno giocando? Vallo a sapere. Ma Berlusconi ha già così tanti problemi sul tavolo: a pranzo ospita un vertice di partito, viene passata in rassegna l'agenda parlamentare e provvedimenenti che devono avere priorità. Berlusconi si arrabbia per il doppio scivolone della maggioranza al Senato e per l'assenza della terza gamba in Commissione alla Camera: «Ci vuole responsabilità. Altrimenti», taglia corto, «meglio se andiamo a votare». di Salvatore Dama