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La consultazione del 12 giugno e il valore del nucleare: se vincerà il 'sì' pagheremo 30 miliardi di euro

Le rinnovabili non basterebbero a colmare il 25% di fabbisogno messo in conto all'atomo. Così la spesa per l'import s'impenna

Andrea Tempestini
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Circa 80 miliardi di euro. È questo il valore che nei prossimi anni, complici le oscillazioni delle materie prime, potrebbe raggiungere la nostra fattura energetica (oggi a 51 miliardi), ovvero ciò che importiamo dall'estero, se il petrolio continuerà a viaggiare sui 100 dollari al barile. Si tratta, tanto per avere un'idea, dello stesso costo che ogni anno l'Italia paga per gli interessi sul debito pubblico del 120% del pil. Il problema è vecchio e noto. Oltre l'85% dell'energia consumata nel nostro paese proviene dall'estero sotto forma di olio combustibile, carbone, gas naturale. Nel suo complesso questa enorme quantità di energia equivale a circa 164 milioni di tonnellate di petrolio. Se ci limitiamo a considerare solo i consumi elettrici (che rappresentano circa il 15% dei consumi energetici totali) la nostra dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili necessari alla produzione arriva al 72 per cento: 50% gas, 17% carbone e 5% olio combustibile. Ma a questi va aggiunto un altro 14% di energia elettrica che viene acquistata direttamente da Francia, Svizzera e Slovenia. I tre Paesi, manco a farlo apposta, utilizzano reattori nucleari. Ed ecco il problema: l'atomo. La Svizzera ha fatto marcia indietro ed è ipotizzabile che la sua elettricità si alzerà di prezzo in seguito a diverse esigenze di fabbisogno. È già successo in Germania, che ad aprile, dopo il blocco di sette delle sue centrali nucleari è stata costretta a raddoppiare le importazioni di energia chiudendo per la prima volta il saldo in negativo rispetto all'export. Quanto alla Francia, che continua tranquillamente a produrre energia a basso costo dalle sue 59 centrali atomiche, non ci sono dubbi che sfrutterà senza esitazioni la sua nuova posizione competitiva. E l'Italia? Dopo l'improvvida marcia indietro del governo, domenica si voterà un referendum che potrebbe mettere la pietra tombale sull'utilizzo del nucleare nel nostro Paese. Molti in questi giorni stanno inondando le nostre tv, i nostri giornali e persino i social network di allarmi catastrofici, di terribili anatemi, di oscure profezie sul destino dell'umanità colpita dalle radiazioni. Nessuno, però, ci dice come copriremo quella quota del 25% di energia prodotto dall'atomo nel 2020 su cui il governo e le autorità del settore hanno ragionato negli ultimi anni per riequilibrare il mix di produzione nel nostro Paese. I numeri sono già sul tavolo. In base ai dati del gestore della rete Terna, nel 2010, con la tenaglia della crisi, l'Italia ha avuto bisogno di 320mila gigawattora di elettricità ed è stata costretta ad importarne 44mila. Le previsioni al 2020 parlano di una cifra che oscilla tra i 370mila GWh (nello scenario di base) e i 410mila GWh (nello scenario che ipotizza uno sviluppo del pil più robusto).  Come colmeremo la potenza di generazione che manca in Italia, senza acquistare a piene mani elettricità (chissà a quali costi) dai cugini francesi? Certo, ci sono le rinnovabili. Intanto, come scrive Terna, anche «con una maggiore presenza di eolico e fotovoltaico, il sistema non è grado di coprire il carico» con un buon «grado di affidabilità» visto che convenzionalmente il contributo delle rinnovabili in termini di potenza media è del 25% della potenza installata. E poi, quanto ci costerà incrementare ancora la produzione da eolico e fotovoltaico? Secondo le stime dell'Authority per l'energia gli attuali incentivi per le rinnovabili già pesano sulle nostre bollette per circa 100 miliardi di euro da qui al 2020. In quella data il costo dell'incentivazione sarebbe compreso tra i 2,7 e i 3,3 centesimi di euro per kWh, il doppio rispetto ad oggi e circa il 17-20% dell'attuale costo unitario del kWh elettrico al lordo delle imposte. Una stima interessante sarebbe quella del prezzo del megawattora alla Borsa elettrica dei prossimi mesi. Già stiamo, a maggio, abbondantemente (75 euro) sopra la Germania (56) e la Francia (52). E con i futures a luglio 2011 la forbice si allarga (rispettivamente 77, 55 e 53 euro). Dove potremmo arrivare con il sì al referendum? di Sandro Iacometti

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