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La successione del Cav? Un rompicapo Ma l'uomo giusto c'è: è Giulio Tremonti

Il ministo è spigoloso ma ha salvato i conti d'Italia con la sua competenza. Alfano troppo 'cocco' / PANSA

Giulio Bucchi
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Il giudizio più feroce è arrivato da Carlo De Benedetti, il padrone del gruppo Espresso-Repubblica. Parlando in un dibattito nelle Langhe, dopo aver detto la sua sull'universo mondo e su Silvio Berlusconi, si è soffermato un istante sulla nomina di Angelino Alfano a segretario politico del Pdl. E ha ringhiato quattro sole parole: «Hanno inventato un manichino». Così riferisce La Stampa di venerdì 3 giugno, in una cronaca attenta, scritta da Roberto Fiori.  Conosco l'Ingegnere da anni e so che è capace di usare toni diversi nella polemica politica. A volte spara sciocchezze da trombone, a volte ci prende con una brutale capacità di sintesi. Nel caso di Alfano, penso che in qualche modo abbia ragione. A parte l'insulto che il ministro della Giustizia non merita, la sua nomina ha lasciato perplesso anche me. Prima di tutto perché, appunto, è stata una nomina, decisa motuproprio dal capo assoluto del partito, Silvio Berlusconi.  I leader politici non nascono così. Emergono da battaglie aspre, sono quasi sempre dei lupi mannari abituati a combattere contro più avversari, vengono eletti alla fine di un percorso congressuale di lacrime e sangue. A quel punto, si trovano nella condizione di esercitare un potere senza veti. Possono perderlo soltanto in seguito a una sconfitta elettorale o nel duello contro un concorrente. Alfano è nato dalla testa di Berlusconi, come Atena dal cranio di Zeus. Ma i tempi della mitologia greca sono passati da un pezzo. Il Cavaliere non è Zeus o Giove. Non ne possiede i poteri e la forza. Tanto che Alfano, prima o poi, risulterà un figlio di nessuno. E soprattutto temo non riuscirà a risolvere il problema numero uno del partito che è stato chiamato a guidare.  Questo problema ha un solo codice: RMI, Rischio di Morte Imminente. Per come la vedo io, il Pdl è in coma profondo. Appare soltanto l'ombra del gigante capace di vincere in modo trionfale le elezioni del 2008. Da allora ha iniziato una corsa suicida verso l'abisso della disfatta. È inutile rievocarne le tappe disastrose, poiché ogni mattina ci vengono ricordate dalle cronache politiche. E non soltanto da quelle dei giornali che sono avversari fanatici di Berlusconi. Mi limiterò a rammentare i guai più vistosi. Una scarsa cultura del territorio, con una presenza limitata di dirigenti e di quadri politici all'altezza del loro compito. Un'impotenza drammatica a restare unito. Una guerra ininterrotta tra i capi di seconda e terza fila. La difficoltà crescente di andare d'accordo con la Lega, il partner indispensabile per governare. Mi ha colpito un'immagine usata da Franco Frattini, il ministro degli Esteri. Qualche giorno fa ha evocato il pericolo di una “balcanizzazione” del Pdl. Era questo l'urlo delle nostre madri quando vedevano noi bambini picchiarci nel cortile: «Basta con questa Balcania!».  Quando i clan di un partito vanno ai materassi, come facevano la bande mafiose nel “Padrino”, il passo successivo è fatale: il rimbombo cupo della campana a morto. A questo punto è inevitabile una domanda. Berlusconi si accorge o no del disastro che rischia di travolgere il suo partito e, insieme, la sua leadership?  Il Cavaliere non è sordo e nemmeno un minchione. Eppure non si muove, come se attorno a lui non stesse accadendo nulla. E se azzarda qualche passo, lo fa nella direzione sbagliata. Succede ai capi politici convinti di avere ancora molto tempo davanti a sé e di essere in grado di tenere in piedi l'intera baracca. Ma così commette l'errore più grande da quando è sceso in campo.  Il 1994, l'anno della prima vittoria elettorale con la straordinaria invenzione di Forza Italia, è una data lontana, situata addirittura in un altro secolo, molto diverso dal Duemila nel quale viviamo. Il Cavaliere non è quello di allora, neppure sotto l'aspetto anagrafico. Aggrapparsi alla convinzione di essere sempre un politico giovane, pieno di risorse, capace di sconfiggere qualsiasi avversario è un'illusione che lo trascina soltanto al disastro.  Eppure una via d'uscita esiste ancora. E sappiamo tutti quale è. Berlusconi deve decidere subito di lasciare il trono che si è conquistato. Il suo partito ha l'obbligo di scegliere chi può succedergli alla guida del governo, l'unico incarico che pesi per davvero. Nel Pdl hanno cominciato a parlare di primarie. Forse senza rendersi conto dei rischi che comportano. Rischi che non sono per niente quelli temuti dal Cavaliere: l'irruzione nei gazebo elettorali di “infiltrati”, ovvero di militanti delle tante sinistre che fingono di essere elettori del centro-destra.  Qualcuno dovrebbe spiegare a Berlusconi che le primarie non diventano un espediente sterile, che talvolta sfocia in un massacro, soltanto a una condizione: i concorrenti non debbono essere più di due o tre. Ce lo insegna l'esperienza del centro-sinistra. Non tenerne conto avrebbe l'unico risultato di renderle inutili o dannose.  Seguo con grande interesse le “Primarie fai da te” che si stanno svolgendo su Libero. Hanno un successo impressionante. Migliaia di lettori rispondono alla domanda: “Chi vorresti come successore di Berlusconi nel 2013 alla guida del centrodestra?”. Non è elegante che un giornalista partecipi a un sondaggio destinato al pubblico del quotidiano sul quale scrive. Ma se potessi farlo, voterei per Giulio Tremonti. Perché sceglierei il ministro dell'Ecomonia come leader di un governo moderato e liberale? Le ragioni sono molte. Qui ne rammento soltanto tre. Tremonti ha salvato i conti pubblici dell'Italia, e insieme i nostri risparmi privati. È un competente in un paese dove l'incompetenza regna sovrana. È un politico diverso, nel serraglio del partitismo nostrano. Ha un carattere non  facile, ma tutti gli uomini di carattere sono spigolosi: un segno di forza, non di debolezza.   A mio parere, dovrebbe essere lui il successore di Berlusconi. Mi sembra l'unica via d'uscita razionale dalla crisi del centro-destra. E soprattutto dalla crisi che può sempre minacciare il paese. Tremonti ci mette in guardia di continuo da questo rischio tuttora in agguato. Non vende sogni, come spesso ha fatto il Cavaliere. Il tempo dei miracoli è finito. Siamo in un'epoca di vacche magre. Cerchiamo di non farle morire di stenti.  Proprio perché Tremonti rappresenta una via d'uscita razionale, sarà molto difficile che venga percorsa. La casta politica, di qualunque colore sia, è una sciocca al cubo. Ma allora il Pdl, così come è oggi, continuerà a morire. Gli elettori moderati se ne staranno a casa, disgustati dall'indifferenza dei loro leader, sempre alla ricerca di una fetta di potere, sia pure a secco di voti. Vedo troppi capi convinti di seguitare a vincere. Sapete chi mi ricordano? La gioiosa macchina da guerra del povero Achille Occhetto. Nel 1994 era certo di trionfare e venne raso al suolo dall'avversario, l'esordiente Silvio.  A quel punto vedremo profilarsi all'orizzonte una coppia per me indigeribile: Rosy Bindi e Nichi Vendola. L'ha già candidata a guidare il paese uno sponsor mica da poco: Gad Lerner. Ma l'affannato Gad, dai tempi di Lotta continua in poi, ha sempre perso tutte le battaglie importanti. Comunque, per prudenza, meglio toccare ferro. di Giampaolo Pansa

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