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Francesco Coco, il giudice eroe ucciso due volte

Il procuratore di Genova cadde nel '76 freddato dalle Br. Per la sinistra era solo un "nemico del popolo" / PANSA

Andrea Tempestini
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Ci sono voluti trentacinque anni per risarcire Francesco Coco. Qualche lettore si domanderà chi fosse. Era un magistrato, il Procuratore generale di Genova. Venne ucciso dalle Brigate rosse nel primo pomeriggio dell'8 giugno 1976. Mentre ritornava a casa per la pausa pomeridiana. Camminando con il passo di un signore quasi settantenne, lungo un carruggio in salita, sotto un sole da spaccare le pietre. E per che cosa il dottor Coco doveva essere risarcito? Ecco la domanda centrale della storia che sto per rievocare. Per il momento, dirò soltanto che era doveroso cancellare la cattiva fama che gli era stata cucita addosso. Un fama che non meritava: quella di essere un magistrato reazionario, un servo del potere politico imperante nel tempo della Prima Repubblica, un affossatore di inchieste che infastidivano i padroni del vapore, tanto pubblici che privati. Infine, per accennare subito al contesto dell'ingiustizia subita anche dopo morto, bisogna aggiungere che i sarti che gli avevano confezionato  quel cattivo vestito stavano tutti a sinistra. Tanto in quella parlamentare, che aveva a Genova una delle sue roccaforti, quanto in quella extraparlamentare. Con l'appendice sanguinaria delle Brigate rosse che, pure a Genova, potevano contare su un'area di consenso molto vasta. A questo punto, qualcuno si chiederà: se il dottor Coco era un magistrato tanto inviso a sinistra, come mai il presidente Giorgio Napolitano ha pianto anche per lui? Non posso che rispondere così: cari amici, gli anni passano, gli atteggiamenti cambiano, i giudizi si rivedono. Il capo dello Stato ha fatto bene a commuoversi per Coco. Credo nella sincerità del suo rimpianto. Di altri che vengono dalla stessa parrocchia di Napolitano, no. Di loro non mi fido. Per loro vale un vecchio motto: l'unico magistrato buono è quello morto. Salvo nel caso che abbia preso di mira il cavalier Berlusconi. L'8 giugno 1976 era un martedì. Lavoravo al  Corriere della sera  come inviato, al servizio di Piero Ottone e sotto il comando di Franco Di Bella, il primo dei vicedirettori, l'uomo che guidava la macchina redazionale di via Solferino. Stavo pranzando a casa quando mi chiamò al telefono proprio Di Bella. Disse soltanto: «A Genova hanno assassinato Coco. Un'auto del giornale sta venendo a prenderti. Parti subito. E quando capirai che cosa è successo, cercami».  Arrivato a Genova, ebbi sotto gli occhi quello che poi avrei visto a Torino l'anno successivo, nel novembre 1977, dopo l'agguato brigatista a Carlo Casalegno, il vicedirettore della  Stampa. E quanto vidi e ascoltai mi diede il vomito. Nella sinistra genovese erano in tanti ad esultare per l'assassinio di Coco. Dicevano: era uno sporco fascista, un magistrato al servizio del capitalismo, un nemico dei proletari, le Br hanno fatto bene ad accopparlo, la sua morte è un atto di giustizia. Che il dottor Coco non piacesse ai rossi di Genova, a quelli ultrà, ma anche a una parte della base del Pci, l'avevo imparato due anni prima, nella primavera del 1974. Il 18 aprile le Br avevano sequestrato un pubblico ministero in servizio alla Procura genovese, Mario Sossi. Era il primo sequestro di lunga durata dei brigatisti, allora guidati dal nucleo fondatore. La faccenda era durata più di un mese. E sembrò concludersi con una richiesta delle Br: Sossi sarebbe tornato in libertà soltanto attraverso uno scambio di ostaggi. Questi erano gli otto membri di una banda di terroristi rossi, la XXII Ottobre, finita in carcere dopo una serie di rapine, un sequestro di persona e l'omicidio di un fattorino incolpevole. Dovevano essere scarcerati tutti entro 48 ore. In caso contrario, Sossi sarebbe stato ucciso. L'ultimatum stava scritto nel comunicato numero 6 delle Br, datato 18 maggio, ed era rivolto alla Corte d'appello di Genova. Due giorni dopo, il 20 maggio, la Corte si riunì e decise di concedere la libertà provvisoria agli otto terroristi. Ma qualcuno era contrario e disse no: il Procuratore generale di Genova, Coco. Lui non approvava la trattativa con le Br. Ed era molto contrario allo scambio di ostaggi. Lo considerava una strada pericolosa, capace di condurre lo Stato a riconoscere le Br come soggetto politico. E soprattutto gravida di rischi successivi, dal momento che in futuro quel mercato si sarebbe di certo ripetuto. Coco impugnò l'ordinanza e ne chiese l'annullamento alla Corte di cassazione. A quel punto, le Br compresero di aver perso la partita. E il 23 maggio liberarono Sossi alla periferia di Milano. Coco aveva visto giusto e si era comportato da tutore della legge, dello Stato e di noi cittadini. Due anni dopo il suo assassinio, nella primavera del 1978, le Br rapirono Aldo Moro. Anche allora i terroristi cercarono di trattare con lo Stato. Ma per fortuna vinse la linea della fermezza. Dopo il caso Sossi, agli occhi delle sinistre il profilo di Coco divenne ancora più fosco. Lo dipinsero come un uomo gelido, pronto a sacrificare la vita di un giudice molto vicino a lui. Lui replicò, con la solita calma: «Mi avete mai visto andare in giro dentro un carro armato? Anch'io sono a disposizione di chi mi voglia uccidere». Ma chi lo avversava continuò a ripetere la stessa accusa: nel dire no allo scambio con i terroristi della XXII Ottobre aveva confermato di essere un nemico del popolo. Oggi questa etichetta suona come un'assurdità bestiale. Ma non appariva così  a metà degli anni Settanta. Per molti militanti rossi, i brigatisti erano moderni Robin Hood, scesi in campo con le armi per combattere i padroni, identificati in blocco come lo Stato imperialista delle multinazionali. A sentire questi tifosi del brigatismo, Coco non stava certo dalla parte dei proletari. Anche dopo il suo assassinio, Coco non trovò pace. Nell'estate di quel 1976, una parte dei giornali e dei settimanali continuò a dipingerlo a colori neri. Spesso con l'aiuto di magistrati non soltanto più giovani di lui, ma assertori di una giustizia tutta inclinata a sinistra. Coco venne definito «un giudice squalificato, non più utilizzabile dal potere, anzi ormai considerato controproducente da quelli della sua stessa parte». «Un uomo di potere all'antica, un paladino del potere». «La sua funzione era di insabbiatore di medio cabotaggio». «Lui avocava e archiviava di tutto». «Considerava istituzioni intoccabili la Chiesa e l'Arma dei carabinieri». «Uno dei peggiori arnesi della magistratura reazionaria». Al tempo stesso trionfava la dietrologia. Neppure il volantino delle Br che rivendicava l'assassinio di Coco, e dei due uomini della scorta, calmò il bollore di tanti cervelli. Su  Panorama  del 16 giugno 1976, apparve una dichiarazione di Marco Ramat, segretario di Magistratura democratica: «È  fin troppo facile dare all'omicidio del procuratore Coco una paternità di sinistra. Certo, non abbiamo la possibilità di riscontri obiettivi. Ma non possiamo che credere a un altro delitto manovrato molto dall'alto». Da quel crimine sono trascorsi trentacinque anni. Eppure ancora oggi qualche star dei giornali di sinistra persiste nel distinguere, nella schiera dei magistrati vittime del terrorismo, tra buoni e cattivi, tra reazionari e democratici. In realtà, tutti dobbiamo delle scuse a Coco. Riposi in pace, signor Procuratore generale. Il presidente della Repubblica ha pianto anche per lei. di Giampaolo Pansa

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