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"Meglio il Mullah dei politici corrotti: lottò per il popolo"

Massimo Fini risponde a Mughini. "Qui nessuno farebbe come il talebano Omar: lui non combatte per soldi"

Andrea Tempestini
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Giampiero Mughini, su Libero di venerdì 8 aprile, scriveva dell'infatuamento di Massimo Fini per il Mullah Omar: "Innamorato del talebano, dimentica com'è bello l'occidente". L'occasione per il dibattito è stata la pubblicazione del nuovo provocatorio saggio del giornalista, un'esaltazione del combattente afghano. Ecco la replica di Massimo Fini. Caro Giampiero, c'era una battuta che facevo a teatro, nel mio Cyrano, se vi pare..., che riscuoteva un certo successo. Dicevo, storpiando un po' l'italiano per esigenze di spettacolo: «Nego nel modo più assoluto che il Mullah Omar sia meno rappresentativo della sua gente del fatto che qui da noi si infili una scheda in un'urna e salta fuori Renato Schifani». Boato. Con ciò non intendevo dire, come non lo intendo nel mio libro, che noi dobbiamo cuccarci il Mullah, ma nemmeno che dobbiamo imporre gli equivalenti di Schifani, i nostri valori, le nostre istituzioni a un popolo, che tu stesso definisci «remotissimo», che ha una storia, tradizioni, sistemi familiari, concezioni della vita e della morte completamente diversi da quelli che si sono sviluppati in Occidente a partire dalla Rivoluzione industriale. Ma questa è già ideologia. Nel mio libro io riporto fatti, dati, documenti. Racconto innanzitutto come nasce il movimento talebano. Se non si conoscono le sue origini e le sue ragioni, non si può capire come mai i Talebani si siano affermati in Afghanistan e l'abbiamo governato per sei anni, fino all'invasione americana e all'occupazione della Nato. I leggendari comandanti militari che avevano sconfitto l'Unione Sovietica, i “signori della guerra”, i Massud, gli Ismail Khan, gli Heckmatyar, i Dostum, impegnati in una feroce guerra civile per la conquista di un potere lasciato vacante dall'uscita di scena dei russi, si erano trasformati, con i loro sottoposti e vassalli, in bande di borseggiatori, di ladri, di taglieggiatori, di stupratori (di stupratori, Giampiero, tu che difendi, giustamente, la dignità della donna), di assassini che vessavano in ogni modo la popolazione agendo nel più pieno arbitrio. Il movimento talebano, che nasce letteralmente dall'iniziativa di quattro ragazzi, Omar, Ghaus, Hassan e Rabbani, che avevano combattuto giovanissimi gli invasori sovietici, è una reazione a questo intollerabile stato di cose. Dirà il giovane Omar: «Come potevamo starcene tranquilli vedendo tanti crimini commessi contro le donne e la povera gente?». I giovanissimi Talebani sconfiggeranno i ben più esperti e meglio armati “signori della guerra” non solo per la fortissima carica ideale che li anima ma perché hanno il pieno appoggio della popolazione che non ne può più di quegli abusi, riporteranno l'ordine e la legge nel Paese, sia pure una dura legge, la sharia, e daranno all'Afghanistan sei anni di relativa pace tra tanti di guerra. E l'appoggio della popolazione lo conservano tutt'oggi di fronte ad altre violenze, quelle dei bombardieri Nato che, secondo un rapporto dell'Onu del 2009, sono in gran parte responsabili delle circa 60mila vittime civili (maschi adulti, vecchi, donne e bambini) provocate da dieci anni di guerra all'Afghanistan. ELEMENTI CRUCIALI Tu poi, nella tua recensione, non affronti alcuni fatti cruciali e non lo fai, credo, perché sono inconfutabili. 1) Nell'Afghanistan guidato dal Mullah Omar c'era sicurezza. Come mi ha detto Gino Strada, che vi ha vissuto, si poteva girare tranquilli anche di notte perché i Talebani avevano ricacciato oltreconfine i feudali “signori della guerra”, eliminato le bande di predoni, disarmato la popolazione. 2) In quell'Afghanistan  non c'era corruzione per la semplice ragione che ai corrotti i Talebani tagliavano le mani e, nei casi più gravi, anche un piede. Cosa ovviamente inapplicabile in Italia perché avremmo un Parlamento di moncherini. Non c'è un solo leader talebano che, nei sei anni in cui il Mullah Omar è stato al potere, possa essere accusato di essersi arricchito personalmente. 3) Negli anni 2001-2002 il Mullah Omar bloccò, con decisione autonoma, la coltivazione del papavero da cui si ricava l'oppio e in seguito l'eroina. Una misura difficilissima, un'antica richiesta dell'Agenzia contro il narcotraffico delle Nazioni Unite, che tutti i governi precedenti si erano ben guardati dall'esaudire. Il Mullah la impose perché per lui l'etica del Corano, che vieta la produzione e il consumo degli stupefacenti, era più importante dell'economia. E il traffico dell'oppio, com'è documentato, crollò quasi a zero. ORA E' UN DISASTRO Vediamo, sempre dati alla mano, qual è oggi la situazione dell'Afghanistan, dopo dieci anni di occupazione occidentale. Il Paese è distrutto, economicamente, socialmente, moralmente. L'introduzione forzata del modello occidentale ha devastato la povera, ma autosufficiente e dignitosa, “economia di sussistenza” afghana (sostanzialmente: autoproduzione e autoconsumo). Durante il periodo talebano a Kabul vivevano un milione e duecentomila persone, oggi sono cinque milioni e mezzo. Basterebbe questo dato. La disoccupazione, che era all'8%, è salita al 40% e in alcune regioni all'80%. L'artigianato locale è stato spazzato via. IPOCRISIE SUL BURQA Oggi i burqa, a cui le afgane non hanno rinunciato ritenendolo più dignitoso che sculettare in tanga, e che comunque non è un'invenzione talebana ma un'antichissima tradizione riguardante vaste aree dell'Asia Centrale e del Medio Oriente, lo fabbricano i cinesi. La corruzione è endemica. E riguarda non solo la cricca di Karzai, i funzionari locali, la polizia, la magistratura ma anche i contingenti internazionali e parecchie Ong con le loro “vispe terese” che, fra una seduta in palestra e un tuffo in piscina, sculettano in short per le vie di Kabul senza alcun rispetto per la sensibilità degli afghani, che è diversa dalla nostra. Particolarmente grave è la corruzione della magistratura. Per avere una sentenza bisogna pagare, per averla favorevole bisogna strapagare. Tanto che gli afghani preferiscono rivolgersi ai tribunali talebani non necessariamente perché aderiscano alla sharia ma perché, in assenza di qualsiasi giustizia, quella talebana è almeno una giustizia, sia pur spiccia e sbrigativa. Riferendosi all'imperante corruzione che ha corroso il suo Paese, Ashraf Ghani, un medico afgano che ha fatto il dottorato alla Columbia University, insegnato per otto anni a Berkley e alla John Hopkins University, ed è stato funzionario della Banca Mondiale, il più occidentalizzante dei candidati che si sono presentati alle elezioni presidenziali del 2008, le cui parole sono quindi al di sopra di ogni sospetto di simpatie talebane, ha commentato amaramente: «Nel 2001 eravamo poveri, ma avevamo la nostra moralità. I miliardi di dollari che hanno inondato il Paese ci hanno tolto l'integrità, la fiducia l'un nell'altro». Infine l'Afghanistan produce oggi il 93% dell'oppio mondiale. LA DEVASTAZIONE La devastazione portata in Afghanistan dagli occidentali è stata molto più profonda di quella sovietica. I russi hanno fatto grandi distruzioni materiali, ma non si erano messi in testa di cambiare l'economia, la socialità, la mentalità, i valori, le tradizioni, i costumi di quel Paese. La distruzione occidentale, oltre che materiale, è stata economica, sociale e morale. E allora perché rimaniamo in Afghanistan ad ammazzare gente che non ci ha fatto nulla di male e che mai ce ne farebbe, se non stessimo sulla loro testa con 170mila soldati in armi? Forse a te, che mi consideri anti-americano e forse anche anti-italiano, è sfuggito che ho dedicato il mio libro a un nostro soldato, Matteo Miotto, ucciso in battaglia da un cecchino. Matteo Miotto, un ragazzo semplice, un veneto orgoglioso delle proprie radici, aveva capito quello che i politici occidentali, gli intellettuali occidentali, al sicuro nelle loro case, si rifiutano o fan finta di non capire: che anche gli altri, che anche i ragazzi talebani, che deve considerare dei nemici, hanno diritto alle loro radici e a difenderle. E in una bella, commovente, sensibile e coraggiosa “lettera aperta” scritta due mesi prima di morire, e di cui voglio qui riportare uno stralcio, dirà: «Questi popoli hanno saputo conservare le proprie radici, dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case, invano. L'essenza del popolo afgano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. E allora capiamo che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi». In quanto a Omar, di cui il mio libro ripercorre la storia, ha combattuto, giovanissimo, per dieci anni, gli invasori sovietici, è stato ferito gravemente quattro volte, ci ha perso un occhio (non mi è piaciuta per niente la tua espressione «orbo», non l'avresti mai usata per un soldato italiano semiaccecato in battaglia), ha combattuto i “signori della guerra” in difesa della povera gente, e ora, da dieci anni, in condizioni difficilissime, senza l'aiuto di alcuno (altro che i rivoltosi libici che dopo aver assaggiato pochi giorni di bombardamenti di Gheddafi si sono messi a “chiagne” e a invocare Papà Sarkozy e Mamma Nato), combatte il più potente, tecnologico, sofisficato e robotico esercito del mondo. UN UOMO ONESTO Un uomo che quando è stato al potere non lo ha utilizzato per arricchirsi o per ritagliarsi posizioni di privilegio, né per sé né per la sua famiglia né per il suo povero villaggio natio né per i suoi seguaci, ma per inseguire un suo Sogno, giusto o sbagliato che sia. Io uomini del genere, cioè uomini, li rispetto profondamente, molto più dei “sessantottini” che, senza nulla rischiare, pretendevano di fare la rivoluzione con la mutua e sono diventati direttori del Corriere della Sera. Quanto a noi due, inguaribile Mughini, tu all'inizio del tuo articolo riporti solo la prima parte della mia dedica: «A Giampiero, in nome di un eterno litigio». Ma non la seconda, che dice, se non ricordo male, «con affetto». Ed è con affetto che replico alla tua, peraltro civilissima, critica. di Massimo Fini

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