Fausto Bertinotti, il parolaio rosso torna alla lotta e non ne azzecca una
Chiacchierone instancabile, il quasi 71enne ricompare un po' ovunque. Per lui vincere è superfluo / PANSA
Forse non ce ne siamo accorti, ma la sinistra italiana potrà di nuovo contare su un leader bombastico: Fausto Bertinotti. Lo davamo in pensione, alle prese con il problema d'ingannare il tempo. Però non era affatto così. L'ultima puntata di Annozero è stato il segnale che il suo ritorno in campo è prossimo. Giovedì scorso abbiamo visto il compagno Fausto duellare con il ministro Giulio Tremonti. Mostrando al pubblico di Michele Santoro un'ottima forma fisica e mentale. Del resto, fra nove giorni compirà appena 71 anni, un giovanotto per la politica italiana. La sua ricomparsa nel mondo magico dei talk show ha spinto qualche amico a domandarmi perché, nella sua età precedente, l'avessi sempre chiamato il Parolaio rosso. Ho spiegato che l'idea mi era venuta nel lontano 1995, mentre leggevo (...) (...) l'autobiografia del compagno Fausto: “Tutti i colori del rosso”, scritta con Lorenzo Scheggi Merlini per la Sperling & Kupfer. Nelle pagine iniziali, Bertinotti rivelava di essere stato un formidabile chiacchierone sin dall'infanzia. Il padre Enrico, ferroviere, non appena salivano su un tram o in treno, gli diceva: «Fausto, mi raccomando: parla poco, sai che la gente s'infastidisce!». Purtroppo, i figli se ne impipano dei saggi consigli di papà. Anche Bertinotti si comportò così e divenne presto un formidabile parolaio. La prima volta che lo vidi in azione fu nell'autunno 1977, dopo l'assassinio di Carlo Casalegno, ucciso dalle Brigate rosse. In quel momento, Fausto era il segretario della Cgil piemontese e organizzò un dibattito fra i cronisti che avevano raccontato il delitto e le reazioni dell'ambiente operaio di Torino. Lui doveva fare l'arbitro dell'incontro. Invece scese in campo, concionando di tutto e di tutti. Con una loquela straripante, impossibile da frenare. Tre anni dopo, sempre come leader della Cgil in Piemonte, fu uno degli artefici della sconfitta operaia nei 35 giorni del blocco alla Fiat. Quando la Triplice sindacale fu messa al tappeto dalla marcia dei quarantamila che volevano ritornare al lavoro a Mirafiori. Ma parlando a un convegno del Manifesto al teatro Lirico di Milano, Fausto descrisse quel disastro con l'enfasi del trionfatore. Spiegando che si era perso soltanto perché i sindacati non avevano deciso di occupare tutte le fabbriche torinesi del gruppo Agnelli. E fu allora che molti capirono quale fosse la filosofia suicida del Parolaio: la vittoria non conta, l'unico scopo esistenziale è la battaglia, combattere, combattere, combattere. Bertinotti applicò la stessa linea quando divenne il leader di Rifondazione comunista. Il partitino l'aveva inventato Armando Cossutta, dopo il tramonto del Pci sul finire del 1989. L'Armandone lo affidò a Sergio Garavini, ma non era contento di come girava la baracca. Allora prelevò Bertinotti dal comando generale della Cgil e nel gennaio 1994 lo insediò alla testa dei rifondaroli. Con la disinvoltura dei presidenti delle squadre di calcio che, se un bomber non funziona, ne arruolano un altro. Cominciò allora il periodo d'oro del Parolaio. Diventato uno dei leader della sinistra italica, mise subito in mostra la sua attitudine a distruggere. Il primo a farne le spese fu Romano Prodi, costretto a dimettersi da premier nell'ottobre 1998 per il voto contrario deciso da Bertinotti, il suo alleato di sinistra. Ma l'appoggio del rifondaroli era indispensabile al centro-sinistra. E Prodi si trovò accanto il Parolaio anche nelle elezioni del 2006. Dopo la nuova vittoria sotto il simbolo dell'Unione, il Professore si scontrò con il primo di tanti aut aut di Bertinotti. Il Parolaio gli intimò: voglio la presidenza della Camera, oppure due super ministeri: l'Economia e gli Esteri, in caso contrario daremo al tuo governo soltanto l'appoggio esterno. Prodi gli consegnò Montecitorio, forse pensando: se lo metto su quella poltronissima, non mi romperà i corbelli ed eviterà di pugnalarmi come fece nell'ottobre rosso del Novantotto. Ma il Professore s'illudeva. Bertinotti cominciò subito a esternare, spiegando in che modo l'Unione avrebbe governato. Tagli alla spesa pubblica? Nessuno, non siamo mica la signora Thatcher. La legge Biagi? Va rasa al suolo. La Mediaset del Berlusca? Deve dimagrire. La Rai? Ha da restare così com'è. Esempi da seguire? Il compagno Lula in Brasile e il compagno Chavez in Venezuela. E quello non fu che l'inizio. Il Parolaio presidente mostrò sino in fondo le proprie virtù. Un logorroico imbattibile. Un vanitoso. Un egocentrico. Un cultore del birignao, tutto di erre arrotate. Un costruttore infaticabile di bastoni fra le ruote. E infine uno convinto che l'Italia fosse uguale a Rifondazione, dove i guai si risolvevano parlando a macchinetta. In realtà, nel 2007 proprio il suo partito andò a fondo nelle elezioni amministrative. Il segretario, Franco Giordano, fu lapidario: “Ci hanno sradicato dall'Italia del nord”. Bertinotti pensò di sostituirlo con Nichi Vendola, il suo pupillo politico. Però al congresso di Rc, il delfino del Parolaio venne sconfitto da Paolo Ferrero. Era il 2008 e il trionfo di Berlusconi segnò la fine dei rifondaroli e di Fausto. Il Parolaio sembrava fuori gioco per sempre. Ma era un'illusione. Oggi sta ritornando sul campo, sempre accanto a Vendola. È lui lo stratega segreto del capo di Sinistra e libertà. Il dettaglio che abbia sempre perso, non incrina l'immagine di Bertinotti. Alle prossime elezioni, lo rivedremo in Parlamento. Convinto che le sorti della sinistra dipendano da lui. Bersani & C. tocchino ferro. di Giampaolo Pansa