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Caro cavallino mio, mi fai ancora venire la strozza

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Il numero zero? Uno schifo. Poi siamo cresciuti tutti, tra iettatori, attacchi e qualche botta di fortuna. E ora Libero vola

Tatiana Necchi
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di Vittorio feltri - Si fa presto a dire dieci anni di vita. Ma per un giornale sono un'eternità, impossibile riassumerne gli eventi in un articolo. D'altronde i lettori affezionati, quelli storici per intenderci, li conoscono già, avendoli condivisi con noi. Libero infatti si è sempre raccontato, non ha mai nascosto le proprie vicende, amare o esaltanti che fossero. Le ha spiattellate sulle pagine senza pudore né compiacimento. Credo che questa, principalmente, sia stata e sia la ragione di un successo raro nell'editoria italiana, figlia di una mignotta e di tanti padri interessati agli affari loro, non ai nostri. Libero è una eccezione italiana. Nasce per scommessa, si salva per miracolo, si sviluppa con le proprie forze e si impone sul mercato per l'impertinenza: un quotidiano extracomunitario, cioè fuori dal gregge dell'informazione paludata e ossequiosa di qualsiasi potere, cui gli editori di norma concedono favori (sotto forma di encomi) allo scopo di ottenerne (sotto forma di business). Vabbè, ci siamo capiti. Mi permetto, nella ricorrenza del decennale della fondazione, un cenno autocelebrativo per soddisfare la mia vanità, il desiderio peccaminoso  di darmi delle arie: l'idea di Libero è mia. Mi è venuta nella vasca da bagno nella quale uso oziare ogni mattina prima di affrontare le seccature di giornata. Covavo da anni il proposito di lanciare un foglio diverso dagli altri, spettinato e irriverente, e ne parlavo con chiunque senza mai trovare un pazzo che lo finanziasse. Ovvio. Gli editori puri dalle nostre parti sono estinti da mezzo secolo. Senonché quella mattina, mentre mi godevo il tepore dell'acqua, ricevetti una telefonata al cellulare in bilico sul bordo della vasca. Era Massimo Massano, padrone del “Borghese”, cui avevo rivelato da tempo l'insano progetto editoriale. Mi disse secco: se ha ancora intenzione di avviare un quotidiano, sono disponibile a investire un po' di soldi. Cominciai a sognare, anzi, vagheggiare. E l'acqua intanto si freddò. Le meningi ne trassero giovamento e, per incanto, mi venne in mente il nome giusto: Libero. Più che un nome era un aggettivo, ma andava bene lo stesso. Questo almeno fu il responso di una ricerca di mercato commissionata da Massano a un istituto demoscopico. Un mese più tardi - aprile 2000 - era tutto pronto, anche la grafica di Bevilacqua che avevo sperimentato all'Europeo e portato con me all'Indipendente e al Giornale. Solo raccomandabili La parola d'ordine del piccolo gruppo di lavoro era: spendere poco. E spendemmo pochissimo. Scovammo una sede a pigione modesta in via Merano, praticamente sotto i ponti della ferrovia in zona viale Monza. Il mio ufficio era a ridosso della massicciata e quando il treno passava provocava un terremoto: i libri impilati sulla scrivania traballavano e finivano regolarmente sul pavimento. Transitavano una trentina di convogli al dì, e dalla mia bocca prorompevano quindi altrettanti moccoli. Per fare i giornali purtroppo occorrono i giornalisti. Bisognava reclutarne una quarantina, il minimo indispensabile: venti professionisti e venti praticanti da esaminare ed eventualmente confermare. Nessun problema ad arruolare giovani disoccupati o in cerca di un mediocre avvenire da cronista. Si presentò un esercito di disperati e ne selezionammo appunto una ventina, non i più raccomandati ma i più raccomandabili. E i professionisti? A parte Renato Farina, Luigi Santambrogio e me, lo stato maggiore, non c'era un cane che si fidasse a lasciare il certo per l'incerto, e più incerto di Libero allora non v'era nulla al mondo. Imbarcammo gente anonima dal curriculum grigio. D'altro canto la barca era sul punto di salpare, troppo tardi per i pentimenti e perfino per i ripensamenti. Organizzammo soltanto un numero zero (di prova) e quando mi portarono le pagine fui colto da conati di vomito. Titoli sgangherati, articoli abborracciati. Uno schifo. E mancavano 24 ore alla partenza ufficiale. Non mi sparai perché ero disarmato; avrei potuto ripiegare sul treno che per suicidarsi è un bel mezzo. Decisi invece di soffrire in espiazione del mio peccato di presunzione: fare un giornale con due lire è un atto di temerarietà meritevole di patimenti atroci. Che non mi feci mancare. Un mese più tardi avevamo esaurito le scorte di denaro, e la soluzione finale del treno mi pareva a tratti la più idonea. Libero non era granché (eufemismo) e tuttavia non voleva scendere sotto le 40mila copie vendute in edicola. Parecchie per un giornale compilato dalla banda del fil de fèr. Chiuderlo sarebbe stata una follia quanto tenerlo aperto senza capitali. Mentre si avvicinava il giorno delle esequie, si appalesò un imprenditore riminese talmente di buona volontà, Patacconi, da offrirci una ciambella di salvataggio consistente in un miliardino. Attribuimmo il prodigio alle assidue preghiere di Renato Farina rivolte alla Madonna di Caravaggio, nel santuario della quale il pio vicedirettore trascorreva più tempo che in redazione. Entrammo così trionfalmente nel 2001. Le elezioni politiche corroborarono le vendite. I redattori rapidamente imparavano, i praticanti pure. Alessandro Sallusti, giunto in nostro soccorso da Panorama, si prodigò per perfezionare i meccanismi interni. Insomma, Libero marciava. Quando ci fu il G8 a Genova, e accadde il disastro ancora tristemente attuale causa le condanne rifilate alle forze dell'ordine, bruciammo in poche ore 70mila copie. Un record. Fu un'estate ricca di notizie e di brillante diffusione. Ci sentivamo sicuri o quasi. A settembre, giù le Torri Gemelle e su le copie in edicola. Le vie del destino Troppo bello per durare. Infatti, una mattina Farina mi telefona e annuncia con voce tremula la prematura dipartita di Patacconi, l'imprenditore riminese della ciambella miliardaria. Ripiombiamo nel più tetro sconforto. E adesso? Vi risparmio, e mi risparmio, la narrazione del calvario che ci toccò. All'inizio di novembre, la carta era pressoché esaurita, lo stampatore reclamava il saldo delle fatture, i trasportatori arricciavano il naso. E gli stipendi? Mah! Ero in confusione, fingevo serenità e ottimismo per non deprimere la redazione che però, ormai matura, intuiva l'imminenza della sepoltura di Libero. Il destino, tanto crudele fino a quel momento, ebbe pietà di noi. Discesero dal cielo gli Angelucci custodi e acquistarono la testata; ci prestarono denaro a sufficienza lasciando a noi la gestione del giornale. Fine dell'incubo. Da qui in poi, Libero prese a volare e volò in alte quote di copie vendute. Volò alto anche nella considerazione di chi lo aveva snobbato, scommettendo sulla sua morte. Nove anni dopo, una mattina di luglio, sono volato via anch'io, non so perché, forse avevo voglia di altre grane. Mi fermo perché ho la strozza. Ciao caro Libero, cavallino mio.

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