Rosarno, lavoro nero, frutti d'oro
Su Vanity Fair il reportage sulla terra della rivolta degli immigrati
Pubblichiamo ampi stralci del reportage su Rosarno apparso su Vanity Fair a firma di Tamara Ferrari. L'invata del settimanale ha raccontato così la situazione della zona, pochi giorni prima della rivolta. Rosarno, un'ora da Reggio- Alle 5,30 del mattino sono già in cammino. Centinaia di ivoriani, ghanesi, nigeriani, senegalesi, maliani, togolesi e burkinabé, in testa berretti di lana e ai piedi stivali di plastica, raggiungono i punti di ritrovo dove i caporali vanno a prelevarli con i furgoni per portarli negli agrumeti a raccogliere mandarini e arance. Ogni anno, tra novembre e aprile, arrivano in più di duemila nel paese della Piana di Gioia Tauro che, secondo un rapporto di Medici senza Frontiere, ha la più alta densità di stranieri in Italia dopo Napoli e Foggia. Nel buio del mattino si appostano in gruppi di dieci, venti o trenta ai lati di via Nazionale, la strada principale. Ma alle 9 molti sono ancora senza lavoro, e sui loro volti si legge la disperazione mentre a passo lento si riavviano verso «casa». Casa si fa per dire. Gli africani di Rosarno dormono sotto i ponti, nelle campagne, ammassati dentro fabbriche abbandonate senza luce né acqua corrente. Come la Rognetta, un vecchio stabilimento per la lavorazione delle arance, dove oltre 250 persone vivono in condizioni disumane. Le baracche di metallo e cartone sono coperte da teli di plastica neri. Quando piove tutto si bagna, anche i materassi poggiati a terra. Mamadou Cisi, 22 anni, maliano, cammina a piedi scalzi sotto la pioggia. «Dov'è il lavoro?», protesta. «Sono sbarcato a Lampedusa con un gommone, ho sentito che qui cercavano gente per raccogliere le arance. Ma sono a Rosarno da un mese e non ho lavorato un solo giorno». Da una tenda spunta, Kobu, 20, che bisbiglia: «Aiutatemi, Salif sta male». E mostra un ragazzo febbricitante sdraiato a terra sui cartoni. La Rognetta è solo uno di quelli che gli stessi africani chiamano «i tre lager» della Piana. Il secondo si trova sulla strada provinciale di Gioia Tauro, dove in settecento vivono nei silos dell'ex Opera Sila, una vecchia raffineria di olio d'oliva. «Non c'è luce, non c'è cibo, non c'è lavoro», dice Patrick, 30, del Ghana, «sono qui da un mese e non ho i soldi per scappare». (...) Il terzo accampamento è sulla collina di Rizziconi, dove 150 persone hanno trovato rifugio in una villa sequestrata alla mafia. «Qui siamo divisi per etnia», racconta Maleh, ghanese, 30 anni. «In una stanza stanno gli ivoriani, nell'altra i nigeriani e così via. Viviamo in gruppi di dieci, così mangiamo ogni giorno. Per far la spesa ognuno mette 5 euro, chi non li ha si sdebita alla prima giornata di lavoro». (...) Hassna Bouhou, 45, marocchina, volontaria dell'associazione, ha una domanda: «Quanti giovani moriranno entro l'inverno, se nessuno fa niente?». Le risponde indirettamente, allargando le braccia, il commissario straordinario di Rosarno, Domenico Bagnato (da un anno l'amministrazione comunale è sciolta per mafia): «Ma che cosa pretendono da noi? Noi possiamo aiutare solo chi ha il permesso di soggiorno. Per loro, a maggio allestiremo un campo di accoglienza (la raccolta dura fino ad aprile, ndr). Quanto ai clandestini... La clandestinità è reato: a loro dovrebbe pensarci la polizia». Schiavonea, un'ora da Cosenza- Se a Rosarno è crisi umanitaria, a Schiavonea, la frazione di Corigliano Calabro che d'estate è popolata dai turisti e d'inverno dagli stagionali, la situazione non è molto più rosea. «Secondo i dati ufficiali, in paese ci sono 2.700 tra cittadini dell'Est e maghrebini, ma noi ne abbiamo contati il doppio», denuncia Alfonso Caravetta, che con la sua associazione, il Movimento Coriliani, cerca di sensibilizzare istituzioni e cittadini. «Non avrei mai immaginato che in una terra di emigranti come la nostra potesse accadere una cosa del genere: migliaia di nordafricani in condizioni disumane, ammassati in gruppi di dieci-quindici in appartamenti dove pagano 100 euro a posto letto, oppure dentro a garage trasformati in dormitori». (...) Anche a Schiavonea il mattino che avanza porta delusione e rabbia tra chi è di nuovo rimasto senza lavoro. Peppe, il proprietario di un agrumeto, spiega che non è possibile assumerli perché non hanno il permesso di soggiorno. Ma Youssef, 25 anni, non ci sta. Sventola il suo pezzo di carta: «Io non sono un immigrato clandestino, eccolo qua il mio permesso di soggiorno. Mi è costato cinquemila euro, li sto ancora pagando». Sul foglio, che porta la data dell'ultimo decreto sui flussi scaduto a fine settembre, c'è scritto che Youssef è arrivato in Italia come badante, assunto da un anziano residente a Modena.«I documenti me li ha fatti avere un connazionale», spiega, «io questo vecchietto di Modena non l'ho mai visto. Vorrei andare a Napoli a fare il muratore, ma finora ho pagato 3.150 euro, e non ho molto tempo per saldare il debito». (...) San Ferdinando, 2 km da Rosarno - Quello che resta dell'ex cartiera Modul System, dove dal 2003 ogni inverno migliaia di africani si accampavano sotto un tetto di amianto, è un grande capannone disabitato, con le porte murate e le finestre rotte, sotto le quali qualcuno ha poggiato un frigorifero per tentare di entrare. «È stata sgomberata a settembre», spiega il prefetto Domenico Bagnato, «perché era inagibile dopo un incendio in cui erano rimasti feriti quattro clandestini». Esattamente un anno fa, da qui è partita la rivolta degli africani di Rosarno che, per una notte, hanno protestato per strada contro la disumanità delle loro condizioni di vita. «Io c'ero», racconta «Cidi», 25 anni, nigeriano. «Quel giorno alcuni rosarnesi avevano ferito a colpi di pistola due ivoriani, e noi non potevamo più stare zitti. Oltre alla miseria, c'è tanto razzismo. Ci sono ragazzi che si divertono a prenderci a bastonate mentre camminiamo per strada. Si avvicinano con le moto, uno guida e l'altro picchia». Un altro niuro (così li chiamano da queste parti) si avvicina: «L'altra sera hanno picchiato un mio amico perché, anche se aveva fame, rifiutava di spacciare droga». Baracche, razzismo, sfruttamento. Ma è tutto invisibile. Attraversando in macchina le campagne della Piana, si ha l'impressione che gli agrumeti siano deserti. Dove vanno a finire gli africani ingaggiati dai caporali all'alba? «I niuri ci sono, però stanno nascosti verso l'interno delle proprietà, per timore che arrivi la Finanza», spiega don Ciccio, un piccolo proprietario terriero. «In questo periodo fanno controlli a tappeto, e multe salate a chi ha braccianti senza contratto. Ci accusano di sfruttare i clandestini, ma intanto li sfamiamo: mia moglie prepara ogni mattina panini per tutti. E poi, produrre arance costa. Non c'è solo la raccolta: potatura, concimazione, tutto il resto. I magazzinieri vengono, guardano gli alberi, fanno una stima a occhio e poi ci dicono quante cassette vogliono e quanto ce le pagheranno. Quest'anno si parla di 10-15 centesimi al chilo. Ma così copriamo a stento le spese. L'agricoltura è in crisi». Bruxelles-Cosenza - C'è però chi, sulla crisi, ci ha marciato. Ogni anno vengono scoperte truffe clamorose: la più clamorosa di tutte, quella del 2007, ai danni dell'Unione Europea. «Impossibile dimenticarla», mi dice un funzionario dell'Ufficio europeo per la lotta antifrode, «ci hanno fatto un danno di 50 milioni di euro». Alcuni produttori della Piana avevano certificato consegne di frutta inesistenti ad aziende di trasformazione, che avevano finto a loro volta di produrre succhi concentrati destinati alla vendita in Spagna e Francia. Trattandosi di produzioni sovvenzionate, le aziende ricevevano i contributi europei, che dividevano con gli agricoltori. Ma, da un controllo sugli indirizzi delle spedizioni, è emerso che non si era mosso neppure uno spicchio di arancia. «Oggi invece», mi dice un ispettore di polizia a Cosenza, «vanno di moda le truffe all'Inps. Alcune cooperative agricole fingono di assumere braccianti a tempo determinato, e in cambio chiedono agli stagionali fantasma un pagamento, teoricamente per coprire i contributi previdenziali. Contributi che, con la scusa della crisi e del cattivo raccolto, non pagano mai. Così le cooperative si tengono tutti i soldi, e l'Inps versa lo stesso l'indennità di disoccupazione ai finti lavoranti, che così si ritrovano a incassare molto più di quello che hanno speso in «contributi». Sono le stesse aziende che sfruttano i clandestini. Per questo noi facciamo i controlli di cui tutti si lamentano. Serviranno a qualche cosa, secondo voi?».