Tex Willer, l'eroe che gli italiani vorrebbero essere
Cosa c'è di più creativamente italiano di un cowboy milanese che è riuscito a vendere il far west agli americani? Il fatto che oggi Tex Willer, avventuriero, doppio stipendio da ranger e capo navajo, ammazzatutti con l'anima immacolata di un seminarista, Clint Eastwood prima di Clint Eastwood, compia 70 anni, be', è un evento di enorme portata storica e sociale. Quando il 30 settembre 1948 fece capolino nelle edicole, dopo essersi trascinato dalla Monument Valley al Rio Bravo, Tex era tutt'altro che un successo annunciato. Il suo creatore Gianluigi Bonelli, milanessissimo, si distingueva come lo sceneggiatore principe del fumetto autarchico, ma piaceva al Duce a fasi alterne; aveva una Magnum 44 sotto l'ascella e un volto da divo hollywoodiano e nell'immaginare il renger disegnato dal sodale Galep, voleva soltanto omaggiare il suo divo western preferito, Gary Cooper. Oggi il Museo della Permanente di Milano del suo eroe festeggia la longevità con cui ha vissuto splendori e miserie della nazione; e lo fa con una mostra internazionale, Tex, 70 anni un mito (fino al 27 gennaio disegni, foto, materiali inediti) da applausi. E mentre l'intera penisola si scappella per Tex, Kit Carson, Tiger Jack e gli altri caratteri di una saga che odora di spaghetti, sangue e polvere da sparo, perfino una studiosa americana Elizabeth Leake, a capo del dipartimento di italianistica della Columbia University, verga un ponderoso saggio storico-sociale Tex - Un cowboy nell'Italia del dopoguerra (Il Mulino, euro 14). In cui Tex nasce dalla ricostruzione post-bellica del piano Marshall; attraversa il neorealismo e gli anni di piombo, il divorzio e il compromesso storico; incoccia nell'edonismo craxiano e sfiora Tangentopoli e ne esce intonso; cavalca nel nuovo millennio al galoppo del successo di milioni di copie vendute, strappato per qualche decennio all'attenzione dei giovani solo dal collega Dylan Dog. DI PADRE IN FIGLIO Non starò qui a citare il microcosmo di Tex che per anni è stato quello di mio padre e che si appresta, inevitabilmente, ad essere quello dei miei figli. Non evocherò, qui, di Tex i duelli al sole, la mira infallibile, le magie crudeli di Mefisto, gli indiani buoni e i colonnelli spocchiosi, le donne rispettate ma mai -dico mai- viste come oggetto sessuale-, o il senso dell'onore alla John Wayne (il western preferito di Sergio Bonelli che ereditò la baracca dal padre e dalla madre Tea a 25 anni e la rese un impero, era L'uomo che uccise Liberty Valance di John Ford). Non citerò le solite censure di politici e giudici al fumetto negli anni'60: «Siccome l'omicidio era vietato, i cattivi li facevamo precipitare nei burroni, o mordere dai crotali, le minigonne s'allungavano sotto il ginocchio e il massimo della parolaccia era “accipicchia”», mi diceva Sergio, ricordando che il padre faceva 3-4 viaggi all'anno per sottoporre le sue tavole al Minculpop, anche se poi gli attacchi più mirati vennero dalla Chiesa, Togliatti e Nilde Iotti. Non parlerò neanche dei fan dell'ex magistrato Ingroia i quali, all'insaputa di Tex, lo utilizzarono per fare propaganda politica, e fu un miracolo se Tex, allora, non estrasse la colt. No. Qua mi limiterò a ricordare l'insegnamento etico e politico che ci ha impartito la famiglia Bonelli (bellissimo il librone biografico I Bonelli di Gianni Bono, edito dalla stessa casa editrice), nonostante Sergio predicasse di non voler mai far balenare ai suoi lettori l'idea di volergli insegnare qualcosa. Tex è sempre stato sogno e tenacia, il simbolo di quello che noi italiani vorremmo essere. Era un conservatore perché tutto legge e ordine quando si trattava di massacrare i Comanche ribelli e i banditi crudeli, e possedeva un innato senso dell'onore e senso della famiglia quando si metteva a difendere i più deboli da loschi uomini d'affari e burocrati di Washington. Ma Tex era pure un progressista quando sceglieva di difendere i diritti degli indiani, degli agricoltori sfollati o dei poveri cristi vessati dallo Stato. L'AMICO A Willer è legato anche il mio personale ricordo di Sergio Bonelli, grande amico, genio assoluto dell'editoria, a cui debbo la prima intervista della mia carriera. Bonelli, scomparso troppo presto listando a lutto tre generazioni di texiani, è stato per l'Italia quello che Frank Capra fu per il new deal rooseveltiano. Il colpo di lombi nei momenti di crisi e la speranza -magari ingenua- in un futuro in cui non fosse necessario l'arrivo del Settimo Cavalleggeri. Sergio era un moderato illuminato che leggeva sei giornali al giorno, posseduto dalla simpatica ossessione che dopo di lui sulla sua azienda si sarebbe abbattuta l'apocalisse editoriale. Invece, la sua casa editrice oggi veleggia alla grande condotta da Simone Airoldi e, soprattutto, dal figlio Davide Bonelli, uno che -mi raccontava teatralmente il papà- «gli ho visto leggere un solo fumetto nella vita, ed era Diabolik». Ma questa, come direbbe Tex abbracciato al winchester davanti ai suoi pard, nel lucore d'un falò notturno nella prateria, be', è un'altra storia… di Francesco Specchia