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"Chiamatemi nera". La lezione della Kyenge ai rossi

Cecile Kyenge

Il ministro dell'Integrazione abbatte il muro del politicamente corretto dei salotti radical chic. E' un buon inizio

Nicoletta Orlandi Posti
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di Mario Giordano «Non sono di colore, sono nera». Il ministro Cecile Kyenge è partita con il piede giusto. E ha fatto la prima cosa giusta per chi vuole integrare: ha abbattuto il muro del politicamente corretto, quel velo di ipocrisia che circonda i rapporti con gli stranieri, a cominciare dal fatto che se sono neri non li si può chiamare neri. «Io ne sono fiera», dice Cecile Kyenge ed è un bel modo per liberalizzare le parole, e forse anche i pensieri, per rimettere in circolo un po' di buon senso soffocato da troppi anni di indignazione dei salotti radical chic, dove imperversano da sempre le reprimende caviale&bonton: «Hai detto nero? Ma allora sei razzista…». Invece no: ha detto nera, e non è razzista.  E chissà che non sia il primo passo per liberare la lingua italiana dalle contorsioni dell'ipocrisia, quelle per cui il sordo è un non udente, il cieco è un non vedente,  lo spazzino è un operatore ecologico, l'infermiere è un operatore sanitario, non ci sono più handicappati ma solo diversamente abili,  i bidelli sono diventati personale non docente e i ciabattini «restauratori di calzature d'epoca». C'era un mio amico che allo stadio era arrivato a insultare l'arbitro così: «Figlio di un'operatrice sessuale».  E un altro che, colto da giovanile calvizie, soleva dire: «Io non sono pelato, sono solo tricologicamente svantaggiato». Roba da ridere? No, roba seria: perché chiamare le cose con il loro nome è il primo modo per affrontarle davvero. E in effetti «non sono di colore, sono nera» è un bel modo per cominciare ad affrontare i problemi dell'immigrazione, chiamandoli con il loro nome, senza girarci intorno, con serietà e sincerità, senza rifugiarsi dietro le trincee del politicamente corretto che rendono impossibile ogni tipo di discussione. E anche ogni tipo di critica. Perché le  barriere linguistiche spesso sono delle barriere tout court: non poter  chiamare le cose col loro nome, significa non poterle chiamare del tutto. Diciamolo chiaramente: è innegabile che nel nostro Paese ci siano stati episodi di razzismo. Ma è altrettanto evidente che l'accusa generica di razzismo è stata usata spesso a sproposito per contrastare ogni idea che andasse contro il conformismo buonista dilagante. Ecco: noi pensiamo che sia stato proprio l'eccesso di buonismo a generare fenomeni di intolleranza e di xenofobia. Nessuno è contro gli stranieri che rispettano le regole, ma a troppi stranieri è stato concesso di non rispettare le regole, a troppi è stato concessa impunità e licenza di delinquere, troppi quartieri sono stati abbandonati alla loro clandestina prepotenza. Si può dire senza passare per razzisti? Si può dire che il miglior modo di accogliere il prossimo è quello di costringerlo ad accettare le norme della nostra convivenza? Si può dire che la politica delle porte aperte si  è rivelata, com'era ampiamente previsto, una catastrofe umana e sociale? Sappiamo che su questi argomenti Cecile Kyenge è lontano mille miglia da noi. Sappiamo che la pensa in modo diverso, che porta avanti idee spesso di segno opposto. Però le va dato atto che, con il suo primo gesto ufficiale da ministro, ha sgombrato il campo dall'equivoco, ha liberato il terreno del confronto, ha spazzato via i pregiudizi di parola che imbrigliano il pensiero. «Non sono di colore, sono nera e ne sono fiera». È un bel modo per iniziare un incarico, è un bel modo per aprire un confronto, senza trincerarsi dietro i soliti luoghi comuni da salotto , le formule facili da cocktail&manitese, il pensiero eticamente certificato dal  Fabio Fazio Fan Club. Gliene diamo atto con piacere: d'ora in avanti ci scontreremo sulle idee, se sarà il caso, ci confronteremo sui programmi, criticheremo se ci sarà da criticare, attaccheremo se ci sarà da attaccare, come facciamo con ogni ministro, rosso, bianco, verde, azzurro oppure nero, senza guardare il colore della tessera in tasca o della pelle, e senza temere  di sentirci rispondere: «Lo dite perché sono di colore».  Lo potremo fare liberamente proprio perché Cecile Kyenge l'ha chiarito subito:  «Non sono di colore, sono nera».  E chissà  che un giorno non  possa arrivare a definirsi persino «abbronzata»…

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