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Ruzzle, il gioco che in 2 minuti fa impazzire vip e gente comune

Ci si sfida sul proprio smartphone componendo parole di senso compiuto con lettere casuali. Vince chi è più sveglio. O no?

Giulio Bucchi
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  di Fabrizio Biasin E insomma c'è questo giochino, Ruzzle, che ti spappola il cervello a partire dal nome. Se lo pronunci all'italiana, quelli con la puzza sotto il naso ti guardano come se fossi un inutile insetto, ti compatiscono, ti osservano come si osserva il piccione maciullato in piazza Cavour. Poi, con studiata pausa teatrale, ecco l'attacco frontale: «Si pronuncia Rasol, pirletti, fai il bravo e mangia uno Zanichelli». In immediata sequenza, subentra il pensiero infame: «Questo lo batto con la giocata elementare “rei-ree-rea-eri-ere” che è già tanto se al citofono non urla alla moglie “scendi il cane che lo piscio”». E quindi il caro vecchio pasol («puzzle» per chi parla come magna) lascia il posto a rasol, e là c'erano tasselli da incastrare per comporre agghiaccianti paesaggi montani, e qui invece devi combinare sedici lettere buttate a caso in una scacchiera 4x4. E devi comporre parole facendo scorrere il dito sul tuo smartphone. E devi farlo in fretta. E ti devi concentrare un filo più di Corona quando è scappato con la 500 dotata di cercapersone.  Chi vince e chi perde - Tu contro un altro, due minuti di tempo per manche, tre manche totali e il punteggio finale che decide chi è l'imperatore e chi lo schiavo per sempre, l'inetto, quello degno della pernacchia, il figlio illegittimo di Nino Frassica che è uscito umiliato dalla tenzone con il figlio illegittimo del parolaio Alessandro Bergonzoni. Trattasi in definitiva di una specie di «Scarabeo», ma molto più bastardo e molto poco didattico. Ci giochi al bar, al cesso, di notte, davanti al capo fingendo totale attenzione al bilancio semestrale, per strada con lo sguardo all'ingiù, in palestra sul tapis roulant e nel lettone come perfetta alternativa alla micidiale zompata settimanale dopo 35 anni di matrimonio. Tutti ruzzleano, anche quelli che «no, è da sfigati» o «io non ci gioco perché valgono pure le parole inventate e non è mica giusto». Tendenzialmente i detrattori sono classificati nella categoria «perdenti», perché è vero, il sistema conteggia termini astrusi come «Baramelle» o «Spinatti» o anche «Cazzimai», ma è anche vero che se uno vince sempre e l'altro no, non può essere solo questione di fortuna. Parolai - Curiose, in effetti, le tipologie di fanatici parolai. C'è quello che se ne impippa allegramente delle regole e si traveste da novello Joyce o Marinetti. Tenta di raggirare il sistema con termini come «redfgiuh» o «ghhhjji». E si incazza come una biscia quando capisce che il cervellone non abbocca e rispedisce al mittente. C'è quello consapevole della sua ignoranza, che evita di azzardare termini come «acciderboli» e si accontenta di poco: «Noi, voi, re, il, la oli, olio...» al massimo «Mali e male». Onesti mestieranti destinati alla sconfitta, ma che a sera, posato lo smartphone, possono guardarsi allo specchio con fierezza. Ci sono i timidi, quelli che rinunciano ai punticini che regalano termini come «ano» «ani», «cazzi» (accettato nell'accezione fantozziana «cazzi quella gomena!» e non nel senso porchereccio) perché si vergognano, salvo poi tentare la stoccata con «porcellona», che vale una marea di punti e tanti applausi virtuali. Ci sono infine i «furbetti regionali», quelli che «il dialetto vale, porca miseria!», e allora digitano curiose parole tipo «incoroneta» che vale come «incoronata» ma detta alla Lino Banfi.  Il trucco c'è - Ecco, quelli non possono guardarsi allo specchio. Ma i peggiori sono i truffatori, i maledetti, quelli che pur di non far la figura delle bestie analfabete scaricano il sistema che regala tutte le soluzioni in presa diretta. E allora tu fai un bel punteggio ma non avvicini neanche per sbaglio il loro. E ti interroghi: «Ma com'è che questo tutte le mattine mi dice “se io piacerei a quella, sarei l'uomo più felice del mondo” e ora mi batte con parole tipo “mingere”». Perché poi, diciamolo chiaro, la faccenda della sfida a chi c'ha la capoccia più grande regge fino a un certo punto e la verità è che anche Ruzzle (come Facebook e Instagram e pure Twitter) serve per broccolare, per creare il contatto con la bonazza, quella che magari la fai anche vincere così poi hai la scusa di utilizzare la tatticissima chat in dotazione. E allora, arrapatissimo, osi: «Mi devi la rivincita. Dai, facciamo così, se mi aggiudico la prossima partita esci con me a bere un Cynar». E lei, ingolosita dal successo precedente: «Va bene cocco, tanto non mi batti». E tu la disintegri con parole a lei incomprensibili tipo «saltimbanco» e pregusti la sbronza di Cynar. Mascalzone. Ecco, Ruzzle è un successo in tutto il mondo, ma da noi anche di più perché smaschera i difettucci dell'italiano medio. E allora anche i vipponi nostrani non si tirano indietro, si sfidano tra di loro in esclusivissimi duelli rusticani e ogni tanto, mossi a compassione, danno chance persino a noaltri normaloidi (ma se perdono ti spiegano che «sul più bello hanno dovuto interrompere perché ha chiamato Bono degli U2 e quando chiama Bono degli U2 non puoi mica farlo aspettare»). E poi i giornalisti, gli scrittori, i letterati con gli occhiali tenuti insieme dalla catenella, i notai con la pipa, tutti impegnati in clamorosi match con parole ai confini della realtà da laureati alla Sorbona. Umiliazioni virtuali - Chiunque s'azzarda a giocare, nessuno vuole perdere, tutti fingono indifferenza se vengono sconfitti in pubblico come a dire «è un gioco», ma poi smoccolano davanti al vetro del cellulare come mozzi marsigliesi per l'umiliazione subìta. È una moda, passerà presto. O forse no, forse in futuro leggendari triangolari a Ruzzle decideranno chi tra i Monti, i Bersani e i Berlusconi di turno dovrà reggere codesto Paese ruzzolato. Per il momento Gerry Scotti ci farà un gioco a premi  nell'ambitissimo pre-serale di Canale 5. E sarà un successone, anche se per fortuna c'è ancora chi, come noi, se ne frega assai di un passatempo creato per inetti totali. Inetti?! «Netti», «tieni», «etti», «nei», «in», «te» e pure «neitti», che non vuol dire una mazza ma magari il cervellone abbocca e gliela metto in saccoccia al ragionier Viti.    

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