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La Casta dei comunisti cinesie più odiata dei nostri politici

Il 18° Congresso del partito ha decretato il cambio al vertice: i nuovi leader sono ex riformisti che vogliono mantenere i privilegi della classe al potere

Andrea Tempestini
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di Antonio Socci Mentre gli americani votavano il loro debito pubblico schizzava verso i 16,2 trilioni di dollari, che – sommato al debito degli Stati e degli enti locali e all'esposizione del governo federale verso Fannie Mae e Freddie Mac - raggiunge il 140 per cento del Pil. Se si considera che il 21 gennaio 2009, quando Obama ha assunto la presidenza, il debito era a 10,6 trilioni e che, quindi, in quattro anni lo ha aumentato di 5,4 trilioni (cioè del 50 per cento), inquietano le parole con cui egli ha inaugurato il nuovo mandato: «il meglio deve ancora venire». In effetti dal 1° gennaio 2013 c'è il rischio Fiscal Cliff, il «burrone fiscale» e la possibilità di una recessione che darebbe la mazzata finale all'economia occidentale. Ma i media italiani si sono entusiasmati per quella frase di Obama sul «meglio» come se prospettasse la Terra promessa.  I giornali hanno dedicato decine di pagine alle elezioni Usa, mentre è passato quasi inosservato il XVIII Congresso del Partito comunista cinese. Si dà il caso però che proprio la Cina si annuncia come nuova superpotenza mondiale. Basti pensare che è la prima fra i detentori stranieri del debito americano (1,2 trilioni di dollari). Significa che oggi gli americani vivono indebitandosi con la Cina e probabilmente che la Cina potrebbe terremotare l'economia americana quando vuole.   Il tasso di crescita Del resto la Cina, che ha un tasso di crescita quest'anno del 7,5 per cento e detiene le maggiori riserve valutarie del mondo, pare che detenga circa il 10 per cento del debito dell'eurozona (e sia il primo detentore straniero di titoli italiani). Quindi capire chi è il «nuovo imperatore» uscito dalle lotte di fazione del Pc cinese è importante almeno quanto le elezioni presidenziali americane: Xi Jinping governa la più grande superpotenza demografica del pianeta (1 miliardo e 300 milioni di persone), la seconda economia mondiale e una forza militare che sta al terzo posto. Questo Congresso del Pcc si trovava davanti a un bivio. Alla sua vigilia il dissidente cinese Wei Jingsheng  sulla Sueddeutsche Zeitung ha descritto così la situazione: «L'economia cinese di mercato libero-a-metà è già giunta ad uno sviluppo che non è sostenibile. O essa cambia in una piena economia di mercato o rimarrà un'economia di capitalismo di Stato. In una situazione di mercato pieno, l'economia potrebbe continuare a svilupparsi in modo tranquillo. In questo scenario, l'ulteriore liberalizzazione dell'economia porterebbe alla caduta della dittatura del partito unico».  Ma c'è un'altra via. «L'altra opzione» spiega Wei «è di espandere la cosiddetta economia di proprietà dello Stato [il capitalismo di Stato - ndr], che è di fatto un'economia di cui è proprietario il Partito comunista. Questo secondo scenario coincide in modo esatto con quanto il regime comunista ha fatto nell'ultimo decennio. Ed esso porterà all'inevitabile declino dell'economia».  Il Partito comunista, spiega padre Bernardo Cervellera, direttore di Asianews  «controlla il 50 per cento dell'economia e gli oligarchi del partito in pratica sono dei ricchi magnati di una mega holding. Questa holding-partito ha tutta una serie di privilegi e monopoli rispetto agli imprenditori privati. Da qui vengono caste intoccabili, enormi diseguaglianze, esplosive ingiustizie e un insopportabile livello di spreco e corruzione». In effetti lo stesso governo ha riconosciuto che nel solo 2010 sono stati denunciati 640 mila casi di corruzione («anche se» osserva Cervellera «sono seguiti solo 24 mila processi, senza parlare delle poche condanne»). Wei aggiunge: «Il coefficiente Gini per la Cina ha già superato il livello 0.4 di allarme internazionale per pericolosi livelli di disuguaglianze. Oltre a ciò dalla base sta crescendo e sta per scoppiare una rivoluzione».  Negli ultimi due millenni del resto in Cina i rovesciamenti dinastici sono sempre avvenuti per i gravi squilibri sociali. In effetti i segni di questa esplosione già ci sono.  «Scioperi e rivolte» dice Cervellera «sono all'ordine del giorno: se ne contano almeno 200 mila ogni anno. Per ora non hanno potuto coagularsi per la repressione poliziesca del regime, ma il malcontento dilaga, fra la gente e anche fra gli investitori». Fatte queste premesse diventa importante capire chi ha prevalso al Congresso. Dice Cervellera: «Il numero 1 e il numero 2 che sono stati eletti, cioè Xi Jinping, nuovo segretario generale del Pcc e Li Keqiang, erano noti come riformatori, ma da quando sono stati designati hanno “dimenticato” le idee precedenti». Fra l'altro Cervellera definisce questi nuovi timonieri come «vittime e carnefici del Partito» perché la famiglia di Xi Jinping, che faceva parte della fazione del Pcc combattuta da Mao durante la «rivoluzione culturale», subì pesanti violenze e Yu Zhengsheng in quegli anni «ha visto morire sei membri della sua famiglia». Li Keqiang poi era tra gli studenti che manifestavano prima del massacro di Piazza Tien an men. Hanno studiato all'estero e sanno benissimo cosa sarebbe necessario fare. Ma – dice Cervellera – «sono stati portati al potere dai conservatori del partito, in primis dal vecchio Jiang Zemin, e devono difendere questa oligarchia che porterà l'economia cinese al collasso. Il potere li ha omologati e cooptati e loro garantiranno gli enormi interessi di quella casta di dittatori». Dunque non c'è da aspettarsi un'apertura? È un sogno immaginare che nel 2013, a 1700 anni esatti dall'Editto di Costantino, possa emergere a Pechino un imperatore che dia libertà? Cervellera ne dubita: «ci vorranno almeno dieci anni. Deve cambiare ancora una generazione per arrivare ai fisiologici 70 anni che hanno visto crollare anche l'Urss.  Nei prossimi dieci anni la Cina diventerà la prima economia mondiale, spodestando gli Stati Uniti, o esploderà in una guerra civile».   Di certo i germi della libertà già dilagano. Al punto che pure il vecchio leader Hu Jintao ha recentemente avvertito che il Partito si è allontanato dal popolo, che dilaga la corruzione e si rischia il crollo. Alla vigilia del Congresso anche Hu Deping, il figlio del vecchio riformista Hu Yaobang, «ha chiesto che il Partito dia maggiore attenzione ai diritti umani, una maggiore liberalizzazione dell'economia per dare fiato ai privati, l'indipendenza del potere giudiziario. Non passa mese» aggiunge Cervellera «che qualche think tank del Partito non metta in guardia dall'essere sordi alle richieste della popolazione, o chieda di ridurre l'abisso fra ricchi e poveri e fare riforme politiche. Ma per tutto questo occorre ridurre gli interessi dell'oligarchia e mettere in crisi il monopolio del potere del Partito».  Proprio Asianews ha tradotto in Italia lo straordinario saggio di Liu Peng, membro dell'Accademia delle scienza sociali di Pechino. Egli afferma che il Partito non ha più alcun credito popolare e che – per evitare l'implosione – occorrono nuovi fattori di coesione: per questo propone il riconoscimento delle libertà religiose, la liberalizzazione dell'economia e l'affrancamento dello Stato dal controllo del Partito. La vera civiltà Del resto la Cina, nei decenni scorsi, ha potuto conquistare enormi fette di mercato perché non aveva i costi dello Stato sociale e di livelli di benessere e civiltà che ha l'Occidente. Ma il sapere, la tecnica e la scienza che sostengono questo suo boom sono tutti occidentali. Così pure i valori della libertà e della dignità umana che non rispetta. Dunque come può andare avanti? Nel 2002 l'Accademia delle scienze sociali di Pechino studiò la causa di questa superiorità dell'Occidente, sul piano della civiltà, del sapere, della scienza e della tecnica. E arrivò alla conclusione che tale causa è «la vostra religione, il cristianesimo. Questa è la ragione per cui l'Occidente è stato così potente». Oggi l'Occidente ha rinnegato quella sorgente di civiltà e perciò declina. A Oriente come a Occidente quelle sono le radici della costruzione della civiltà.

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