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Braccialetti elettronici, un flop da 5mila euro al pezzo

Il dispositivo non ha mai preso piede in Italia: piace solo ai detenuti e lo Stato si deve dissanguare

Andrea Tempestini
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Il braccialetto elettronico per i detenuti, su cui si è aperta una nuova polemica tra polizia e il ministero della Giustizia, in Italia non è mai stato impiegato su larga scala. Il 'Personal identification device' arrivò in Italia dieci anni fa. Il Viminale ne noleggiò 400 con l'entrata in vigore del decreto legge numero 38 del 2 febbraio 2001. Ma la media di utilizzo, dati 2010, non supera i dieci braccialetti l'anno. Si tratta di una misura (costosa: per ogni dispositivo lo Stato sborsa 5.000 euro) che gli stessi detenuti hanno mostrato di apprezzare. Un sondaggio condotto qualche anno fa da Magazine2, il giornale del penitenziario milanese di San Vittore svelò che il 78% dei detenuti lo porterebbe volentieri, perché risolverebbe il problema dell'allontanamento dagli affetti e sarebbe più facile trovare o mantenere un lavoro. Sul sito del ministero della Giustizia il dispositivo viene così descritto: "E' un mezzo elettronico destinato al controllo delle persone sottoposte agli arresti domiciliari o alla detenzione domiciliare che si applica alla caviglia e permette all'Autorità giudiziaria di verificare a distanza e costantemente i movimenti del soggetto che lo indossa. Nel caso di alterazione o manomissione del braccialetto, è previsto il ritorno in carcere e una pena aggiuntiva". Quello che in Italia è uno strumento che stenta a decollare, in altri Paesi è una realtà consolidata dopo risultati di successo, come il caso della Gran Bretagna E in Russia, lo scorso anno, sono stati lanciati i braccialetti elettronici con Gps per controllare i detenuti in libertà condizionata.

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