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"Per il contributivo è troppo tardi"

L'esperto di previdenza Alberto Brambilla: "Se si fosse fatto nel 1995 risparmieremmo 10 miliardi all'anno. Ma ci fu il veto"

Giulio Bucchi
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Come lui   in Italia i conti e i costi  del sistema pensionistico  li  conoscono in pochi. Alberto Brambilla presiede il nucleo di valutazione della spesa previdenziale presso il ministero del Lavoro. A settembre, con una lettera   al Corriere della Sera,  calcolò in 75 miliardi di euro annui il  peso del settore  sulle finanze pubbliche e si chiese: «È così difficile dire queste verità agli italiani?». Oggi a Libero spiega  che l'idea del neo ministro del Lavoro Elsa Fornero   di estendere il metodo contributivo a tutti i lavoratori in attività non è destinata a portare grandi benefici ai conti dello Stato. Così com'è il sistema previdenziale è davvero  insostenibile?  «Col mio intervento  sul Corriere non volevo  dire che il  sistema è insostenibile, ma semplicemente  far capire quali sono le cifre in gioco».  Auspicava però una riforma... «Non una  riforma. La vera riforma è stata quella del governo Amato nel 1992 e poi quella del governo Dini nel 1995. Lì, col passaggio dal sistema retributivo al contributivo c'è stato un cambiamento epocale. Ora, come già fatto nel 2004, bisogna procedere a una  revisione del sistema per far fronte ad alcuni rischi». Quali rischi? «Il primo è il mancato sviluppo. Senza la crescita dell'economia il sistema farà sempre fatica a rimanere in equilibrio. L'altro rischio è dato dal fatto che in Italia si va in pensione mediamente due anni prima della media europea. E infine,  ci   sono alcuni numeri: i circa 40 miliardi di euro  versati ogni anno dalla fiscalità generale agli istituti previdenziali; i 23 miliardi che servono per finanziare le pensioni sociali, le indennità di accompagnamento, le invalidità, eccetera;  infine la differenza    tra i contributi versati  dai lavoratori e le prestazioni effettivamente erogate: un deficit  pari a  circa 10 miliardi. In totale, come si vede, ogni anno dobbiamo sostenere  costi per circa 74 miliardi di euro». Che cosa pensa della proposta di Elsa  Fornero, che in un articolo scritto pochi giorni prima di diventare ministro  chiede,   per le annualità   successive al  2012,   l'applicazione  del metodo contributivo pro rata a  tutti i lavoratori, anche quelli che nel 1995 avevano 18 anni di anzianità? «Guardi, la proposta non può che farmi contento. Con l'attuale ministro Giarda io stesso mi sono battuto, all'epoca,  per l'introduzione immediata del contributivo pro rata per tutti i lavoratori,  già dal 1995. L'appoggio, perché è un segno di equità tra generazioni. Ma non si pensi che con questa misura  si farebbe grande cassa. I lavoratori ai quali si applica il retributivo,  infatti,  andranno tutti in pensione entro il 2016». Quanti sono questi lavoratori? «Molto indicativamente, si parla di circa 300 mila pensionamenti l'anno di qui al 2016. Insomma, la misura interesserebbe  non più di due milioni di persone».  Che incasserebbero  assegni  più leggeri? «No, l'impatto sarebbe  comunque limitato. I  nuovi pensionati non se ne accorgerebbero  nemmeno. Indicativamente, quelli cui mancano ancora cinque anni di lavoro si vedrebbero   limare l'assegno del 2 per cento». Se invece  il contributivo per tutti fosse entrato in vigore nel '95 quanto avremmo risparmiato? «È  assai difficile fare stime precise. Ma sono convinto che oggi non avremmo quel deficit di 10 miliardi per Inps e Inpdap di cui parlavo prima. Forse, anzi, avremmo un avanzo». Di chi fu la responsabilità  della mancata introduzione? «La misura non passò per responsabilità precisa dei sindacati. Sono loro che dissero   all'allora governo Dini: o la riforma la firmi in questo modo o non la firmeremo noi. Tenga conto che solo l'anno prima avevano bloccato la riforma del governo Berlusconi riempiendo le piazze. All'epoca il governo decise di non perdere l'occasione. Si seguì il motto italiano: piuttosto che niente meglio piuttosto». Ma se oggi  il contributivo  per tutti non basta più dove bisogna agire? «Bisogna anzitutto dare fiducia ai cittadini,  far loro capire che, se mi passa l'espressione, non li si vuole  “fregare”. Le finestre mobili, per esempio, sono intollerabili. Si lavora un anno, o un anno e mezzo  nel caso degli autonomi,  e i contributi  di quei mesi    si perdono completamente. Come fossero tasse». La Fornero pensa anche a un'età minima di pensionamento a 63 anni con abolizione delle anzianità. Concorda? «In parte. Io sui 40    o 41  anni di anzianità contributiva non transigo. Sul punto devo dar ragione alla Lega. È  vero che la speranza di vita aumenta, ma se ho avuto la  “sfortuna”  di cominciare a lavorare a 15 anni ho il diritto di riposare. Anche perché un conto è chi lavora  stando seduto  in Parlamento, altro conto è il panificatore che si sveglia ogni mattina all'alba. Certo i 40 anni devono essere di contributi veri, non figurativi: la cassa integrazione, per esempio, non deve essere compresa». Indichi al governo una priorità. «Io faccio una  richiesta a questo  governo come la facevo al governo precedente. La previdenza complementare, che andrebbe valorizzata,  è stata inserita  nel capitolo della delega fiscale. Quindi c'è il rischio che le agevolazioni vengano falciate con la mannaia dei tagli lineari. Ecco, vorrei dire: toglietela  subito di lì».  Secondo dati Ocse, tra 2004 e 2009 i tedeschi sono andati in pensione mediamente all'età di 61,8 anni. Noi italiani a 61,1 anni. I francesi a 59,1 anni. Perché solo noi veniamo dipinti come gli ultimi della classe? «Conosco quei dati, ma bisogna considerare che i criteri di misurazione nei vari Paesi  non sono omogenei. Per esempio, io credo che l'età di uscita dal mondo del lavoro in Germania sia più elevata. Per quel che riguarda l'Italia posso dire che dal 1992 passi in avanti ne sono stati fatti tanti. Ma che non siano abbastanza,  lo suggerisce un dato: quello del tasso di occupazione per la fascia di lavoratori tra i 55 e i 64 anni. Noi siamo al 30 per cento, il dato più basso in Europa. La media europea è superiore al 50 per cento. Nei Paesi anglosassoni il dato oscilla tra il 60 e il 70 per cento». di Alessandro Giorgiutti

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