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A sinistra i violenti hanno un sacco di fan

Pansa: chi dice che i teppisti erano isolati mente. Col cuore, la maggior parte dei manifestanti era con loro

Giulio Bucchi
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C'è una domanda che tutti si fanno: che cosa accadrà dopo il disastro del 15 ottobre a Roma? Qualche previsione fondata si può azzardarla. La prima è che il disastro si ripeterà. I rivoltosi incappucciati e mascherati hanno vinto contro tutto e contro tutti: lo Stato, le forze dell'ordine, il governo, i partiti, gli Indignati, la Chiesa cattolica, persino la Madonna di Lourdes. Di solito, chi ottiene un successo vuole ripeterlo. Dunque, prima o poi, le truppe della ribellione e dello sfascio torneranno all'attacco. Ecco qualche traccia per capire quanto succederà. I ribelli hanno dimostrato di non essere pochi. Le stime sulle forze che hanno messo in campo sono generiche  e spesso diverse. Cinquecento uomini, mille, duemila? Tuttavia nessuna di queste cifre è importante. Ce lo conferma quanto accadde in Italia nella stagione del terrorismo di sinistra. Le bande in azione, dapprima con le Brigate rosse, poi con Prima Linea e i nuclei di contorno, erano molto ridotte. Apparivano grandi soltanto per i delitti che commettevano. E per la cassa di risonanza fornita dai media, obbligati a rendere conto dei loro crimini e dei comunicati che li rivendicavano. Ma attorno ai gruppi di fuoco esisteva un'area di consenso molto vasta. Chi ha fatto il cronista di quella guerra civile, e teneva gli occhi aperti, lo ha constatato subito. Era una scoperta inevitabile, però sempre raggelante. Alle spalle di chi uccideva o gambizzava stavano mille, diecimila, centomila persone. Pronte a congratularsi con i killer. E a sputare sulle vittime: se gli hanno sparato, vuol dire che se lo meritava. A Roma sono usciti allo scoperto giovani non ancora terroristi, ma pronti, così temo, a diventarlo. Quanti degli Indignati che sfilavano con intenzioni pacifiche li osservavano infuriati o infastiditi? Nessuno può saperlo, anche perché non si conosce con esattezza la forza numerica del corteo. Ma è lecito sostenere che una parte dei manifestanti aveva il cuore che batteva per i rivoltosi.  Confesso di non credere molto alle cronache che raccontano della rabbia degli Indignati nei confronti dei teppisti. È senz'altro possibile che qualcuno abbia cercato di fermarli, arrivando a segnalarli alle forze dell'ordine. Però le dirette televisive ci hanno mostrato decine e decine di Indignati che, alzando le mani per dimostrare che non impugnavano armi, cercavano di impedire la cattura di qualche rivoltoso. Urlando alla polizia e ai carabinieri: “Assassini, fascisti!”.  Se questo è vero, e credo che lo sia, emerge un'altra constatazione. Gli eversori e la loro area di consenso costituiscono una forza distruttiva che le sinistre italiane non controllano più. Sabato è entrato in scena un nuovo partito rosso, non ancora armato eppure pronto a esserlo, che rischia di mettere nell'angolo le sinistre istituzionali e la loro battaglia politica contro il centro-destra. Sono proprio loro le prime vittime del 15 ottobre. Non si ritrovano a pezzi, come la statua della Madonna e il Cristo in croce prelevati da una canonica invasa dai teppisti. Ma rischiano di fare le stessa fine. Immagino che i capi della casta rossa avessero fiutato per tempo il pericolo. Nel corteo indignato non c'era nessun leader del Partito democratico. Non si è visto Bersani, nemmeno la Bindi, neppure Franceschini o Letta. I cronisti hanno rintracciato soltanto uno spaurito Stefano Fassina, il responsabile della politica economica Pd.  Nichi Vendola ha spiegato di essere arrivato in ritardo a Roma e di non essere andato a un corteo che ormai non esisteva più. Non si hanno notizie di Tonino Di Pietro. Forse il sindaco di Napoli, De Magistris, ha mantenuto l'impegno annunciato. Però non c'è traccia di una sua concione. Quanto ai leader ormai decaduti, Bertinotti, Diliberto e compagnia, risultano dispersi. Marco Pannella c'era, ma si è beccato del venduto, un po' di sputi e l'espulsione immediata. Perché il nuovo partito li insidia? Il motivo primario risiede nella sua ideologia: una marxismo rozzo, da analfabeti, fondato su alcuni slogan primordiali, ma capaci di far presa sul popolo rosso. Il capitalismo ha sempre torto. Il mercato spaccia farina del diavolo. Le banche, tutte, comprese le minori, sono le dispotiche padrone del mondo. I debiti dei singoli Stati non vanno pagati da chi possiede poco, bensì dai ricchi. Ma chi sono i ricchi? Semplice: quelli che rifiutano la politica della piazza violenta. E accettano gli ordini dei moderni sovrani dell'euro, a cominciare dalla Banca centrale europea. Compresi i tecnocrati alla Mario Draghi, ritenuto un bugiardo pericoloso quando esprime la sua vicinanza alle ragioni degli Indignati. Come risulta chiaro, siamo tornati alla guerra contro lo Stato imperialista delle multinazionali, il principale cavallo di battaglia delle Brigate rosse.   L'estenuato tran tran dei partiti si sta dilaniando sulla data delle prossime elezioni. Ci saranno nella primavera prossima o bisognerà tirare a campare sino a quella del 2013? Dopo lo choc del 15 ottobre, ecco un dibattito diventato surreale. Quanto durerà la legislatura se vi saranno altre battaglie di strada, violente come quelle di sabato o ancora più sanguinose? Sarà possibile avere una campagna elettorale normale sotto la minaccia rappresentata da un partito che, invece di comizi o talk show televisivi, organizza agguati con le molotov e i micidiali sampietrini? Non trovo una risposta. Ma so per certo che la violenza politica è un sistema a cerchi concentrici. Quando il primo cerchio vince, come è accaduto nella giornata degli Indignati, ne genera subito un altro. Pronto a sostenere un secondo attacco. E quest'ultimo partorisce un terzo anello, ancora più vasto, disposto a fiancheggiare scontri sempre più duri. Penso di non esagerare se scrivo che il “dopo” che ci aspetta sarà molto  difficile. Non soltanto per il dilagare della crisi economica e sociale, ma per la povera  risposta del sistema politico. Un soggetto ogni giorno più debole e diviso. Con una maggioranza allo sbando. E un'opposizione pronta a una serie di imboscate parlamentari sempre più numerose e in successione. Lo ha già previsto l'isterico  Dario Franceschini, domenica, con un'intervista a Repubblica, intitolata secondo la moda dei romanzi d'azione: “Strategia dell'agguato”. Come andremo a finire, signora mia? Era l'eterna domanda che le nostre zie rivolgevano alle amiche. Lo stesso interrogativo me l'ha presentato ieri il geniale  Oscar Giannino, nella sua trasmissione su Radio 24. Ho provato a rispondergli citando uno scrittore che entrambi amiamo: George Orwell, l'autore di 1984 e della Fattoria degli animali. Orwell aveva combattuto in Spagna per la repubblica ed era rimasto ferito. Nel suo libro dedicato a quella guerra, «Omaggio alla Catalogna», racconta che nel ritornare in Inghilterra ripensava alla Londra che aveva lasciato. Una città ordinata, le strade tranquille, le villette curate, il portico in ordine, la bottiglia del latte sull'uscio: “Tutto dormiente di un profondo, profondo sonno, da quale temo ci sveglieremo sotto il fragore delle bombe”. Mentre scriveva Omaggio alla Catalogna, Orwell aveva intravisto con anni d'anticipo le incursioni degli aerei di Hitler sulla capitale britannica. Finirà  così anche l'Italia, sotto le esplosioni di un ribellismo continuo? Comincio a temerlo. di Giampaolo Pansa

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