Corre voce che la Guerra di Liberazione sia stata un’esclusiva dei partigiani comunisti, ma non è vero. Il mondo cattolico, per esempio, ha dato alla patria combattenti ed eroi che tra l’altro impedirono alla Resistenza di essere soltanto «Triangolo rosso» e sangue dei vinti. Una pagina importante di questa storia la racconta Missionari nella Resistenza. Il contributo del Pime alla Liberazione, 1943-1945 (In dialogo, Milano, pp. 302, euro 24) di Ezio Meroni, nato alle porte di Milano nel 1954, già insegnante di Lettere, cultore della materia, autore di libri su argomenti diversi.
La sigla del sottotitolo, Pime, sta per Pontifico Istituto Missioni Estere ed è un vanto della Chiesa italiana, in specie milanese, fondato nel capoluogo lombardo nel 1926 con l’idea di portare il Vangelo negli angoli del mondo, meglio se impervi, e soprattutto di mandarci predicatori ben formati. Non di rado questi hanno arricchito il palmarès dei martiri; nel nostro caso hanno scritto un capitolo importante della Seconda guerra mondiale, firmandolo con i nomi dell’allora Superiore generale mons. Lorenzo Maria Balconi e di tanti padri, fra cui Ferruccio Corti, Aristide Pirovano, Lido Mencarini e Mario Limonta. La guerra in corso in Italia ne aveva frenato lo slancio missionario; così, impossibilitati a partire per terre lontane, trovarono qui il terreno fertile per la missione.
L’Otto Settembre del 1943 l’Italia precipitò dalla padella nella brace. Nel clima di disorientamento generale, tenere la barra diritta fu indispensabile per sopravvivere. I preti del Pime si spesero senza indugi e furono la bussola di molti, moltissimi. Negli ospedali, pieni rasi di feriti nel corpo e nell’animo, ma non solo: perché i cattolici in guerra e nelle situazioni liminari non sono soltanto benemerite crocerossine, ma anche uomini risoluti e impavidi. Tessero reti, i padri del PIME, mantennero i contatti fra i gruppi, furono staffette, recapitarono dispacci e qualche segreto, sostennero i prigionieri di ritorno dalla Germania. Si mossero apertamente quando poterono, difesi dalla loro tonaca-uniforme, e sennò clandestinamente. Alla bisogna inforcavano la motocicletta.
Sembra un dettaglio che qui rosica inutilmente spazio, ma non è così. All’epoca un prete a due ruote sfidava l’immagine da santificetur che ce ne si era fatti, ma quelli erano uomini veri (mica perché preti lo erano da meno), italiani seri (anche i preti lo sanno essere, che diamine), patrioti sinceri all’altezza della sfida, alabardieri di pace in sella al cavallo di ferro, cavalieri barbuti dell’ultimo giorno con Gesù tatuato sul cuore. Uomini da film nel film vero della tragedia concreta. Non passarono infatti inosservati e pagarono con processi, lo spettro della deportazione e il carcere tedesco di Bergamo padre Corti e il lager nazista di Donauwörth suo fratello don Riccardo. Fortunatamente ne uscirono. Meroni ha costruito il libro negli archivi, immensi, del Pime, dove sono custodite perle documentali, producendo pagine che, mentre sanno di romanzo, regalano un affresco storico rigoroso, appoggiato sull’abbondanza di note e bibliografia. La narrazione in realtà prende abbrivio dallo scoppio della guerra, il 1° settembre 1939. Si dipana poi lungo tutti i suoi anni terribili tarando sempre l’obiettivo fotografico sulle scelte e sulle sorti del Pime, e poi culmina nel contributo supremo dato da quei resistenti diversi alla Liberazione.
Vi si incontrano preti «in stivaloni e tonaca», don Aristide che molla due sonori ceffoni a un fascista il cui moschetto lo aveva mancato di poco e gerarchi delle SS come il capitano Pfaff, che, barricato nell’albergo della Malpensata, sulla statale Como Lecco, all’imbocco di Erba, e poi arresosi, ottenne da quei preti il ritorno salvo a casa. Perché il nodo, sia del libro sia di questa Resistenza altra, è che i suoi campioni non erano spinti dalla sete di spartirsi una pagnotta già misera. Loro erano un’altra cosa. Non l’odio ideologico o la vendetta politica li animava, ma l’amore per la verità che prendeva forma nella Buona Novella e che si traduceva in una giustizia concreta fatta di carità mai sprecona e sempre profonda. Chi vestiva una divisa diversa, magari anche colpevole, era anzitutto un’anima che sbagliava e quindi da aiutare, se possibile correggere, non per bravura, ma effetto della magnanimità divina di cui vollero essere strumenti. Un pezzo onesto di Italia bella nelle brutture della guerra. Se qualcuno se ne dimentica volutamente ci sarà un perché.