25 aprile e l'Italia del Dopoguerra, l'oltre mezzo milione di partigiani immaginari

Sono 650mila i cittadini che hanno chiesto il Diploma Alexander che certifica la militanza nella Resistenza. Ma le domande accolte sono molto meno
di Marco Patricelligiovedì 24 aprile 2025
25 aprile e l'Italia del Dopoguerra, l'oltre mezzo milione di partigiani immaginari
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Una valanga di domande nel dopoguerra per avere il Diploma Alexander, appendice burocratica di riconoscimento alla militanza e uno dei primi mattoni per la costruzione del mito apocrifo e a-storico dell’Italia liberata dai partigiani, leitmotiv improponibile nel resto d’Europa. Gli stracitati dati ufficiali dell’Archivio di Stato sono impietosi nello scarnificare la vulgata resistenziale, perché fotografano una situazione ben diversa da quella propagandata: 10.000 resistenti dopo l’8 settembre 1943, 30-40.000 a marzo 1944, 125.000 poco prima del 25 aprile e 250.000 dopo il 26, per diventare 350.000. Ma al momento di richiedere il certificato che assicurava una corsia preferenziale per il pubblico impiego e una piccola gratifica, i partigiani reali e sedicenti erano cresciuti sino all’abnorme cifra di circa 650.000, tra cui decine di migliaia di staffette donne, in numero superiore anche alle biciclette circolanti. Un esercito che, se fosse davvero esistito, in ipotesi avrebbe potuto ridurre a mal partito la Wehrmacht, rendendo non necessarie le due armate angloamericane, che peraltro la Campagna d’Italia la condussero come peggio non si poteva a detta dello stesso Winston Churchill. Quei 650.000 vennero scremati dalle apposite commissioni istituite per vagliare la pioggia di richieste tale da far sobbalzare dalla sedia il Maresciallo Harold Alexander che doveva firmare serialmente i diplomi.

Il riconoscimento venne applicato a 137.344 partigiani: neppure lo 0,3% dei 40 milioni di italiani. Già questo basterebbe a far scolorire il santino artificiale della resistenza di massa e dei liberatori dell’Italia, esposto sotto le bandiere egemoni dell’Associazione nazionale partigiani autoinvestitasi unica depositaria della memoria, della storia e da qualche tempo anche della Costituzione. L’Anpi già nei lontani 1948 e 1949 venne svuotata con due scissioni di tutte le altre anime politiche della lotta partigiana, proprio a causa della sua ortodossia comunista filosovietica: andarono via democristiani, monarchici, militari, autonomi, socialdemocratici, repubblicani, liberali e persino anarchici. Ma oggi le sigle Fivl (Federazione italiana volontari libertà) e Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane) non dicono niente o quasi, fagocitate dall’onnipresente e monopolista Anpi imbottita di terze e quarte file dell’ultrasinistra, tale da avere oggi tanti iscritti quanti erano tutti i partigiani riconosciuti nel dopoguerra. Nominalmente ente morale, è fattualmente partito politico ausiliario che interviene su tutto, dalle crisi internazionali alle trivelle nell’Adriatico, in nome dell’antifascismo militante; il che significa vedere il fascismo ovunque non ci sia allineamento ai post-partigiani o non ci siano proprio loro a rilasciare patenti di democraticità, pretendere dichiarazioni giurate e spiegare la storia nelle scuole, sostituendosi a maestri e professori, trasformandosi in esperti col solo tocco taumaturgico al collo del fazzoletto tricolore d’ordinanza.

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L’Anpi però non la racconta tutta e non la racconta giusta: se lo può permettere perché la sinistra se l’è coccolata ben benino, assecondandola in ogni richiesta e lasciandole campo libero in una festa nazionale che a causa del partigianesimo manicheo è stata svuotata del senso nazionale per la tutela esclusiva su un tema non di parte come la liberazione e quindi la libertà. Un po’ sagra di paese con pastasciutte antifasciste e vini rossi partigiani, un po’ appuntamento in appalto simil-istituzionale, un po’ messa cantata di slogan: è la Resistenza partigian-comunista, prospettiva distorta e assorbente del tutto, rimpianto della rivoluzione mancata e narrazione addomesticata dell’autoesaltazione. D’altronde la commissione per il rilascio della qualifica di partigiano, anche se filtrò le famose 650.000 domande, fu pure di manica larga. Emblematico il caso del contadino Cesare Ciammaichella da Chieti, considerato partigiano combattente per otto mesi in ben tre diverse bande (più una rivelatasi inesistente) ma come «isolato» (qualunque cosa essa significhi), fucilato a maggio 1944 dai tedeschi perché si era opposto a una ruberia; è retoricamente ricordato su una lapide caduto per «amore della libertà e della patria», e ancora oggi i discendenti non riescono a farlo riclassificare vittima civile della barbarie nazista secondo storia, verità e giustizia. Altre bande furono accorpate per dare a esse una consistenza che non avevano, altre ancora esistevano solo nella fantasia di chi vantava meriti che non aveva o dei compilatori, facendo fiorire brigate e divisioni, e medaglie persino per incidenti d’auto o al valor militare per un vescovo, come acutamente sottolineò lo storico Raffaele Colapietra che certamente non poteva tacciarsi di simpatie di destra.

La generalizzazione e la banalizzazione della Resistenza è andata come la banalizzazione delle stragi e degli eccidi nazifascisti, inserendo esecuzioni a cannonate, investimenti da parte di camion militari, esplosioni di mine dopo la guerra e persino uno scontro a fuoco ad Assergi per impedire la liberazione di Mussolini a Campo Imperatore che ebbe per vittima il carabiniere Giovanni Natale. Strage davvero singolare (oltre che singola), in quanto proprio i paracadutisti tedeschi soccorsero subito il militare ferito e lo fecero ricoverare all’ospedale dell’Aquila, lasciando per iscritto con ammirazione che il 12 settembre 1943 fu l’unico a fare il suo dovere. Quel giorno, secondo la vulgata, sul Gran Sasso sarebbe già stata operativa una banda partigiana. Tempismo perfetto.