Prosegue il nostro viaggio per raccontare l’altro 25 aprile, ben diverso dalla narrazione della mitizzata resistenza. Ogni giorno, fino alla ricorrenza della Liberazione, ripercorriamo gli anni della guerra civile raccontando fatti e personaggi della storia italiana.
La guerra di liberazione dell’Italia costò alla 5ª armata statunitense, all’8ª armata britannica e ai contingenti delle altre nazioni coinvolte circa 350.000 perdite tra morti, dispersi e feriti. Sulla Penisola ci sono oltre quaranta cimiteri di guerra dove riposano le spoglie dei soldati alleati provenienti da mezzo mondo schierati in diciannove mesi di combattimenti contro i tedeschi e i repubblichini. I più grandi, per dimensioni, sono quelli americani di Nettuno e di Firenze con 7.862 e 4.402 tombe; a queste andrebbero aggiunte quelle di ulteriori 4.000 soldati non identificati. Gli Stati Uniti hanno conteggiato circa 32.000 vittime.
In territorio italiano sono sepolti 40.000 militari del Commonwealth, con circa 47.000 morti complessivi; un decimo sono nei soli cimiteri militari di Catania e Minturno; al sacrario di Torino di Sangro i caduti sono 2.600; oltre duemila ciascuno ad Anzio e a Bari; il più grande è a Cassino, con 4.600. Il contingente francese e coloniale, con circa 115.000 soldati sul campo di battaglia, ha avuto quasi 8.000 perdite. I polacchi hanno perso quasi quattromila soldati.
Per quanto concerne gli italiani, i dati ad aprile 1946 diffusi dal Governo parlano di 128.505 morti e 29.398 feriti dall’8 settembre 1943 al I maggio 1945 tra le unità combattenti; i partigiani caduti risultano 26.459 e 20.288 gli uccisi per rappresaglie o motivi politici (quindi non in combattimento), per un totale di 46.747. Tutte le cifre, per quanto ufficiali, sono approssimative. La legge n. 518 del 1945 stabiliva che fossero considerati caduti per la lotta di Liberazione i partigiani morti in combattimento o per malattia durante la Resistenza, le vittime di rappresaglie, i prigionieri politici e gli ostaggi uccisi dai nazifascisti. Ma le categorie tra partigiano combattente e vittima civile di atti di violenza erano distinte. Secondo quanto stabilito dalla Commissione Italiana di Storia Militare al Senato della Repubblica nelle risultanze di giugno 1998, l’esercito cobelligerante nel periodo 1943-1945 ebbe una consistenza che oscillava dai 442.000 ai 452.000 uomini, ai quali vanno aggiunti i Carabinieri e i Finanzieri; i militari, peraltro, contribuirono alle formazioni partigiane con 80.000 combattenti, e al computo della Resistenza con circa 86.600 morti e dispersi nei lager nazisti che ne detenevano circa 720.000 (617.000 sul territorio del Reich): di questi, 590.000 si rifiutarono di collaborare con la Repubblica sociale e coni nazisti. Circa diecimila i morti e i dispersi della resa dei conti spiccia alla fine della guerra civile.
Nel monumento eretto a Roma per ricordare il contributo delle Forze armate alla guerra di liberazione sono state scolpite in epigrafe le seguenti cifre: Esercito 413.000; Marina 83.000; Aeronautica 31.000; Guardia di Finanza 3.000. Il movimento partigiano nel suo complesso, a eccezione della Brigata Maiella apartitica e inserita operativamente nei quadri dell’8ª Armata britannica, venne inserito nel 1945 nel Corpo volontari della libertà sotto il comando del generale Raffaele Cadorna e la sua bandiera di guerra fu decorata di medaglia d’oro al valor militare. Solo con la legge 21 marzo 1958 n. 285 il Cvl venne riconosciuto giuridicamente come corpo militare inquadrato nelle Forze armate. Il mito del «vento del Nord» configurato nel 1944 da Pietro Nenni con una felice espressione linguistica non ebbe, né numericamente né per consistenza e neppure per organizzazione o dislocazione, la forza di spazzare via dallo scenario della storia il nazifascismo e imporre in un crescendo di coinvolgimento popolare la libertà e la democrazia. Si consideri che, stando ai dati dell’Ufficio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito, nel periodo 1943-45 l’uniforme repubblichina è stata indossata da 558.000 soldati.
Un numero che da solo testimonia la spaccatura tra le due Italie. Ma i conti comunque non tornano. L’Istat nel 1957 pubblicò che dall’8 settembre 1943 a maggio del 1945 l’Italia aveva avuto 187.679 caduti, di cui 67.186 militari e 120.493 civili, precisando che i morti non attribuibili alla guerra partigiana sono 123.624. Ne deriverebbe che la differenza dovrebbe essere attribuita alle forze della Resistenza e a quelle della Repubblica sociale, ma sono inconciliabili con i numeri forniti dalla Presidenza del consiglio dei ministri, ovvero dei 44.270 partigiani uccisi, i 9.980 civili uccisi per rappresaglia e altri 33.000 militari caduti fuori dei confini italiani. C’è un extra di almeno 24.000 morti rispetto alla cifra convenzionale di 187.679. E mancherebbero i repubblichini uccisi dai partigiani, che le fonti resistenziali fanno oscillare tra i 20.000 e i 30.000. Il Ministero dell’interno fisserà a 1.732 le vittime di esecuzioni sommarie, mentre l’Istat ne mette 16.514 alla voce «esecuzione giudiziaria in forza di cause di guerra» per il solo 1945.
Era già stato costruito il mito di una Resistenza lavacro morale e politico del ventennio e della guerra malamente perduta, per poter riscattare il passato attenuando l’atteggiamento punitivo dei vincitori ai quali qualcuno si era illuso – e aveva illuso – di appartenere o di essere addirittura assimilato. Fu ed è una sciagura per l’Italia e per gli italiani non potersi proporre realmente come artefici della propria libertà. Magari fosse andata davvero così, come a Napoli nel 1943 e a Genova nel 1945 che si liberarono da sole, ma con gli americani ormai in arrivo. E invece i partiti, e il Pci in questo fu scientifico, per legittimare loro stessi e il loro ruolo in quella guerra, ammannirono un surrogato artificiale al posto della verità. Il modello artefatto, se non lo si guarda con gli occhiali distorcenti dell’ideologia, delle passioni e delle simpatie, non regge al riscontro dei fatti e della storia, allora come adesso.
L’Italia non l’hanno liberata i partigiani e la festa nazionale della liberazione non è d’appannaggio dei post-partigiani del 26 aprile, e neppure di una parte di essi assorbente del tutto. Il che non significa né sminuire né svilire il contributo dei resistenti che all’epoca fecero la scelta più difficile nel percorso più ostico e pieno di incognite sul presente e sul futuro. A ottanta anni di distanza dal 1945, probabilmente l’ultimo anniversario tondo con ancora protagonisti in vita, nel nome di quel 3-4% di ex partigiani iscritti e forte del 96-97% che rappresenta sicuramente altro, l’Anpi ritiene di poter ergersi come referente monopolista, mettendo in ombra e in secondo piano altri artefici e altri protagonisti. Il 25 aprile è anche la festa dei partigiani ma non è solo la festa dei partigiani. Ed è ora che torni a essere davvero la festa degli italiani e del diritto alla libertà.