Lo Stato islamico è una malattia da cui non si guarisce. Meriem Rehaily era sparita dieci anni fa dai radar. Appena diciannovenne era scappata da Arzergrande (Padova), dove viveva con la famiglia di origine marocchina, e si era arruolata nei battaglioni dei tagliagole. Dopo un iniziale presunto pentimento, seguito alla cattura da parte delle forze curde, aveva lanciato segnali di rimorso. «Ho sbagliato, perdonatemi», giurava. Una bugia. O forse una trappola. Oggi Meriem mostra il suo vero volto, che non è quello incorniciato dal niqab, che le lascia scoperti solo gli occhi. È il volto del terrorismo folle dei seguaci di Al Baghdadi che non vogliono deporre le armi. «Quel periodo era così bello e stavamo tutti bene», ha dettola donna a due giornalisti italiani che hanno pubblicato sul magazine americano New Line sun reportage da Camp Roj, in Siria. Lo stesso in cui è sorvegliata a vista, giorno e notte, insieme ad altre centinaia di soldatesse che hanno abbracciato il Corano. L'avvelenata eredità del sogno di dominio islamista sul mondo.
«Anni davvero felici», ha ripetuto Meriem. Gli anni degli attentati in Francia, in Danimarca, in Belgio, in Germania, in Spagna, in Svezia; dei mercatini di Natale insanguinati e dei bambini falciati dalle auto e dai furgoni in corsa. Gli anni del Bataclan e di Charlie Hebdo. «Poi ci sono state le battaglie, i bombardamenti e hanno distrutto tutto», si è rammaricata. Dall’unione con un miliziano palestinese son nati due figli, che condividono con lei la polvere e il degrado della baraccopoli vicino al confine con la Turchia. Il Paese in cui atterrò in quel luglio del 2015 dopo aver detto al papà di voler fare una nuotata con le amiche al mare. Pare rispondere con fastidio del marito, quasi sicuramente morto sul campo. «Ci siamo conosciuti qui in Siria, poi avete attaccato il nostro Stato e lui è andato in battaglia. Non lo vedo e non lo sento da allora», ha tagliato corto. Meriem è tutt’altro che una sprovveduta a quell’epoca, come intuiscono gli 007 italiani e spagnoli che la identificano seguendo le tracce su Twitter di una misteriosa Sorella Rim. Reclutatrice per conto dell’Isis in Italia e soprattutto autrice della “lista della morte”, fatta circolare in Rete in quel periodo. Un elenco di dieci personalità (come l’allora questore di Firenze, Raffaele Micillo, e l’ex comandante generale dei carabinieri, Leonardo Gallitelli) che i terroristi avrebbero dovuto uccidere a ogni costo. Il carcere e le privazioni non l’hanno però piegata. «Vogliamo tutte andarcene da qui», si legge ancora nel reportage su New Lines firmato da Lidia Ginestra Giuffrida e Giammarco Sicuro, «sono arrivata in Siria da sola, volevo unirmi allo Stato islamico e l’ho fatto: era il mio grande desiderio». A Raqqa la giovanissima Meriem entra a far parte del gruppo di hacker che si occupa della difesa delle infrastrutture tecnologiche del Califfato. Sono lontane le amiche dell’istituto tecnico “De Nicola” di Piove di Sacco, a cui confida come «sarebbe bello combattere per il jihad e morire per Dio»; e sono lontane pure le domeniche trascorse in famiglia a tifare Valentino Rossi, suo idolo giovanile. Nel 2019 il tribunale di Venezia la condanna, in contumacia, a quattro anni. Una pena che a qualche osservatore appare fin troppo lieve per le accuse che le sono contestate. La galera che non si è fatta in Italia, la sta scontando però in Medio Oriente. «In passato le autorità di Roma hanno provato a farci tornare», ha rivelato ancora ai due reporter, «tentando di rimpatriare me e i miei figli, ma io non voglio tornare in Italia». Nel nostro Paese, aggiunge, «troverei soltanto il carcere». «Non voglio andare in prigione separandomi dai miei figli, sono prima di tutto una mamma e per me è preferibile stare rinchiusa in questo campo, ma assieme a loro». I due piccoli non vanno a scuola. Della loro istruzione si occupa Meriem. I custodi del campo pensano che lo faccia per trasformarli in due mujahiddin. La dinastia dell’orrore.
TELEFONATE AL PAPÀ
Eppure, nel 2017 e nel 2018 sembra che la ragazza di Arzergrande sia sul punto di fare marcia indietro. In due telefonate al papà, esprime il desiderio di abbandonare l’Isis perché «pentita». Un momento di debolezza di una foreign fighters tutt’altro che consapevole della sconfitta della sharia e di quella stagione di lacrime e dolore. Nel futuro immaginifico di Meriem Rehaily c’è ancora il profilo barbuto dei miliziani. «Ciò che voglio è soltanto la libertà per me e per i miei bambini, magari in un nuovo Stato islamico. Quello», ha ammesso, «è l’unico periodo in cui mi sono sentita davvero felice». Se felicità si può chiamare.