C’è chi ha arruolato nelle file della Resistenza quelli che non volevano proprio arruolarsi né tanto meno battersi per riconquistare la libertà Prosegue il nostro viaggio per raccontare l’altro 25 aprile, ben diverso dalla narrazione della mitizzata resistenza. Ogni giorno, fino alla ricorrenza della Liberazione, ripercorriamo gli anni della guerra civile raccontando fatti e personaggi della storia italiana segue dalla prima (...) sul campo di battaglia. La Sicilia, non appena il Regno del sud inviò le cartoline rosa di leva per chiamare alle armi nella guerra di liberazione, a fine 1944 si infiammò dando origine al Movimento “Non si parte”. Il sito dell’Associazione nazionale partigiani ne parla come «Resistenza dimenticata» e fa leva sulla rivolta antimilitarista di stampo pacifista, ma all’epoca il Partito comunista accusò il movimento di filofascismo e separatismo. La ribellione isolana venne comunque repressa con la forza e nel sangue dall’esercito regio.
A Nord le bande partigiane il 13 novembre avevano ascoltato sulle frequenze di Italia combatte il proclama di smobilitazione del Maresciallo Harold Alexander per la fine delle operazioni sulla Linea gotica. Era una mossa politica mascherata da provvedimento militare operativo, sventata dal Cln che di fronte allo sconcerto delle formazioni ne diede questa interpretazione: rimanere nelle bande e cambiare strategia per l’inverno. Era ormai predominante, sulla linea di Churchill che voleva tramite la campagna d’Italia sbarrare il passo all’Armata Rossa nei Balcani, quella americana che aveva del tutto accantonato il fronte meridionale.
Ai nazifascisti il proclama fornì la certezza di avere mani libere nella repressione antipartigiana con i rastrellamenti e il consueto corollario di crudeltà. Era difficile districarsi in una situazione magmatica di italiani contro italiani. Un episodio risalente a metà dicembre raccontato dal capitano Domenico Troilo, della Brigata Maiella aggregata al II Corpo d’armata polacco del generale Władysław Anders, è illuminante. Dopo una riunione operativa al comando per concordare i dettagli della battaglia di Monte Mauro, Troilo era salito sulla jeep per tornare al reparto e illustrare i piani d’attacco. Guidava nella notte il suo attendente Aleksander Pešterlej, detto Shura: un russo della Siberia, di stazza imponente, fatto prigioniero dagli italiani a Rostov e dopo l’armistizio, tornato libero, si era arruolato nella formazione autonoma. I due erano inseparabili.
A un tratto vedono una luce in un casolare, si fermano, bussano e chiedono qualcosa da mangiare, che ovviamente intendono pagare. Vengono fatti entrare in cucina: sul tavolo ci sono già pane, formaggio, prosciutto e vino. È a quel punto che l’anziano padrone di casa chiede agli ospiti chi sono. «Risposi che ero italiano e combattevo con le truppe alleate.
A questo punto, mezzo frastornato, mi disse: “Guardi, io non ci capisco più niente. Mezz’ora fa sono andati via altri italiani ma erano vestiti da tedeschi”». La guerra lungo la Linea Gotica è da eserciti organizzati e non da punture di spillo nelle retrovie.
Le rappresaglie nazifasciste sono spietate. Il 7 dicembre gli Alleati avevano convocato a Roma 4 delegati del Comitato di liberazione nazionale alta Italia per imporre di sottoscrivere un accordo secondo cui Comando generale dei volontari della libertà (Cvl) deve seguire sempre le indicazioni fornite dal Comando alleato e il suo responsabile militare dovrà da esso essere accettato come tale. Il Clnai avrà competenza sui territori liberati solo fino all’insediamento dell’Allied Military Government. Quindi i membri del Cvl «passeranno alle dirette dipendenze del comandante delle forze alleate: essi saranno tenuti ad eseguire tutti gli ordini che riceveranno, anche quello di consegnare le armi e di sciogliere le bande».
Il Clnai si era illuso di aver disinnescato gli ordini di Alexander contenuti nel proclama, mentre l’indirizzo politico era chiarissimo.
Eppure appena il 4 dicembre Ravenna era stata liberata con un contributo significativo della 28ª brigata partigiana “Gordini” comandata da Arrigo Boldrini “Bülow”. I componenti portavano orgogliosamente al collo il fazzoletto rosso, e nonostante la direzione del Pci predicasse prudenza e raccomandasse di non ostentare il pugno chiuso, di non esporre distintivi di partito, di tenere nascoste le stelle e le bandiere rosse e i simboli con falce e martello, come aveva notato personalmente il generale Mark Clark portavano le insegne comuniste e si erano rivolti a lui salutandolo col pugno chiuso. All’inizio del 1945 gli americani hanno detto chiaramente che le bande nei territori liberati vanno sciolte e che se i partigiani intendono contribuire alla guerra di liberazione possono farlo solo a titolo individuale arruolandosi.
Nell’esercito cobelligerante c’è minor durezza: il capo di stato maggiore generale Paolo Berardi il 13 gennaio invia una relazione alla Sottocommissione alleata di controllo per l’esercito descrivendo così i volontari: «Si tratta di personale in parte già addestrato, abituato al combattimento ed alla guerriglia, che costituirebbe un apporto prezioso per le forze italiane di combattimento; si tratta di uomini che in mesi di lotta alla macchia hanno sofferto durissime privazioni e traversie che giustificano la pretesa - se tale si può chiamare- di trovare, rientrando nell’esercito, un livello minimo di condizione di vita; si tratta di elementi che, qualora inaspriti potrebbero in seguito dar luogo a situazioni politiche incresciose quali già si sono verificate in altri paesi».
E non solo. Un capitano del Gruppo di combattimento Cremona annota l’arrivo di 180 volontari con due ufficiali. «Sono arrivati con fazzoletti rossi al collo cantando l’Internazionale. Il capo ha tenuto loro un discorsetto, per inquadrarli. Lo hanno acclamato. Crede di averli domati. Ho paura che succederà il contrario. È gente ben organizzata». Il 21 aprile, nel giorno della liberazione di Bologna, alcuni partigiani dei Gap felsinei si erano messi a sventolare una bandiera rossa davanti ai soldati in transito con l’uniforme britannica.
Una jeep Willys che stava sopraggiungendo aveva inchiodato le ruote davanti a loro. Un maggiore polacco era sceso, aveva fatto il saluto militare, poi aveva strappato loro di mano la bandiera rossa e l’aveva scaraventata per terra con disprezzo. Ai partigiani rimasti di sasso aveva detto che per i polacchi la bandiera di Stalin era come quella di Hitler. Era risalito quindi sulla jeep che era andata via sgommando. I soldati del generale Anders erano stati rinchiusi nei gulag siberiani e lo stesso comandante era stato torturato nella famigerata prigione della Lubjanka di Mosca. Conoscevano sulla loro pelle quello che anche Palmiro Togliatti sapeva, ma “Il Migliore” si era ben guardato dal raccontarlo ai compagni italiani.