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Rebecca Horn e l'arte di mettere in discussione i confini politici, emotivi e fisici dei corpi

di Nicoletta Orlandi Posti giovedì 17 aprile 2025

5' di lettura

Scultrice, regista e performance artist tedesca, Rebecca Horn è stata un importante esponente della scena artistica femminista legata alla body art già dagli Anni Sessanta. Scomparsa il 6 settembre dello scorso anno a 80 anni, il Castello di Rivoli le rende omaggio con la prima retrospettiva italiana in un’istituzione museale pubblica  "Cutting Through the Past" che a partire dal 23 maggio prossimo ripercorre la sua ricerca artistica iniziata quando, in piena adolescenza, venne colpita dalla tubercolosi che le impedì per lunghi periodi di muoversi.  Costretta in un letto, il suo corpo divenne un territorio sospeso, fragile, ridotto a presenza silenziosa. Fu in quel tempo rarefatto che prese forma l’idea fondante della sua poetica: il corpo, privato della sua funzione ordinaria, poteva diventare altro. Poteva essere aiutato. Un corpo che non si limitava più a esistere nello spazio, ma che lo abitava in modo nuovo. Un corpo prolungato da protesi, estensioni meccaniche, dispositivi che ne amplificava la presenza. Il gesto iniziale di Rebecca Horn – quello che avrebbe guidato tutta la sua opera – è stato questo: trasformare la limitazione in linguaggio. Fare della fragilità una forma. E del corpo, un vettore artistico dalla natura fluida e mutevole. Con la mostra al Castello di Rivoli il lavoro di Rebecca Horn torna a interrogarci con tutta la forza dell’urgenza sui nostri corpi e sull'uso che ne facciamo.

Del resto Rebecca Horn non ha mai amato la definizione di “artista visiva”. Si è sempre considerata una coreografa. E in effetti, a partire dagli anni Settanta, ha trasformato ogni opera in un gesto danzato. I corpi – quelli veri, i suoi, quelli degli altri – diventano vettori, superfici attraversate da oggetti che toccano, sfiorano, pungono, proteggono. In Einhorn (1970-72), una donna cammina nuda all’alba con un lungo corno bianco fissato sulla testa. In quel corpo vulnerabile, camuffato da animale mitico, convivono dolcezza e minaccia. Il gesto è minimo, ma la visione è assoluta. È una figura mitologica contemporanea, che rimanda alla Colonna spezzata di Frida Kahlo, ma senza pietismo. Qui la sofferenza è forza, è movimento. È un’armeria poetica. E sarà proprio Harald Szeemann, nel 1972, a portare il suo gesto radicale a Documenta di Kassel, intuendo che quel corpo esteso non era una provocazione, ma una nuova grammatica. Quella grammatica è diventata per Horn linguaggio con il quale generare opere in cui la figura umana è presente anche quando non c’è. O forse soprattutto quando a muoversi sono macchine autonome, oggetti in rivolta, piume agitate da meccanismi invisibili. Come in Concert for Anarchy (2006), pianoforte appeso a testa in giù che si apre e si richiude a ritmo regolare, come un respiro dissonante. Le estensioni che Horn progetta – piume, lame, scale, specchi, metronomi – non sono mai accessori. Sono arti vivi, funzionali alla percezione del mondo. Ogni oggetto viene liberato dal proprio ruolo e trasformato in soglia: tra interno ed esterno, umano e non umano, meccanico e affettivo.

LA RETROSPETTIVA - La mostra al Castello di Rivoli, curata da Marcella Beccaria in collaborazione con la Haus der Kunst di Monaco, che aprirà al pubblico il 23 maggio prossimo, raccoglie il nucleo essenziale di questa evoluzione. Dalle prime performance documentate nei video digitalizzati (Performances I, Berlin) proiettati su grande scala, digitalizzati appositamente, restituendo allo spettatore la fisicità del gesto originario, ai film come Der Eintänzer (1978), dalle installazioni storiche come Inferno (1993–2024), Turm der Namenlosen (1994), fino alle sculture cinetiche come Pfauenmaschine (1982) e Hauchkörper (2017) – corpo che respira.

Il titolo della retrospettiva, Cutting Through the Past, riprende l’omonima opera del 1992–93. È una dichiarazione d’intenti. Non basta ricordare: bisogna incidere. Il passato, per Horn, è un tessuto vivo da squarciare e attraversare. Per farlo, si serve di oggetti comuni: elementi che, liberati dalla funzione originaria, diventano simboli mobili. Archetipi meccanici. La mostra include anche opere raramente esposte, grazie ai prestiti della Fondazione Moontower, fondata dalla stessa artista a Bad König. E valorizza i lavori conservati nella collezione permanente del museo, come Miroir du Lac (2004), specchio acquatico dove l’immagine non si riflette, ma si frammenta.

Il corpo, nel tempo, lascia il posto all’ambiente. Ma non scompare: si dissolve negli spazi, nelle città, nei paesaggi della memoria. Negli anni Ottanta e Novanta, Horn realizza film simbolici e visionari – Der Eintänzer, La Ferdinanda, Buster’s Bedroom – in cui i protagonisti abitano mondi isolati, costruiti per riflettere identità fragili e mutevoli. Questa sensibilità si estende poi alle installazioni pubbliche: Piccoli Spiriti Blu (1999) a Torino, con costellazioni luminose che dominano il Monte dei Cappuccini; Spiriti di Madreperla (2002) a Napoli, con 333 teschi in ghisa in dialogo con le capuzzelle” della devozione popolare. Anche qui, come in tutto il suo lavoro, l’artificio non è mai un travestimento, ma un potenziamento. Un modo per dire l’indicibile.

L'EREDITA' - Rebecca Horn ha esposto nei più importanti musei del mondo – Guggenheim, Tate, Centre Pompidou, National Gallery – ed è stata la prima donna a ricevere il Carnegie Prize (1989). Ha vinto il Premio Imperiale per la scultura in Giappone, il Wilhelm Lehmbruck Prize, ed è entrata a far parte dell’Orden pour le Mérite für Wissenschaften und Künste, la più alta onorificenza conferita ad artisti e scienziati dalla Repubblica Federale della Germania. Ma i riconoscimenti, per quanto prestigiosi, non bastano a definire la sua eredità. Perché Rebecca Horn ha fatto qualcosa di più radicale: ha introdotto nella scultura e nell’installazione l’idea di attraversamento. Ha creato un’arte che non rappresenta il corpo, ma ne mette in discussione i confini – biologici, politici, emotivi. Come lei stessa scrisse, ha aperto “crepacci verso un universo di cui possiamo solo intuire l’esistenza”. 

Il 24 e 25 maggio, in occasione dell’edizione 2025 di EXPOSED – Sotto la superficie / Beneath the Surface – il Castello di Rivoli le dedica una due-giorni di proiezioni. Verranno presentati La Ferdinanda (1981) e Buster’s Bedroom (1991), film scritti e diretti da lei, parte della collezione del museo. Perché la sua voce – meccanica, intima, ancestrale – continua a parlare. Lo fa con ritmo lento, come un respiro. Ma non smette.

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