Prosegue il nostro viaggio per raccontare l’altro 25 aprile, ben diverso dalla narrazione della mitizzata Resistenza. Libero ha scelto di accompagnare i lettori all’appuntamento con la Liberazione raccontando fatti e personaggi che la sinistra e la vulgata partigiana hanno a lungo sottaciuto per motivi politici.
Gli Alleati volevano truppe scelte e non una massa combattente, l’Italia non poteva offrire le prime ma solo numeri; e comunque gli angloamericani non volevano soldati italiani in prima linea. Dalla firma dell'armistizio lungo avvenuta a Malta il 29 settembre 1943 – quando il Maresciallo Pietro Badoglio sulla corazzata Nelson aveva lasciato di stucco il generale Dwight Eisenhower atteggiandosi a stratega e indicando condotte e direzioni di guerra – i militari italiani erano pochi ed equipaggiati malissimo. Il governo aveva dovuto insistere e poi protestare per farli distogliere dalle funzioni standard alle quali erano stati destinati, ovvero di bassa forza per compiti di fatica e di retrovia, guardati con superiorità e compatimento da inglesi e americani.
C’era un esercito nazionale da ricostruire, come forza combattente e nel morale, per una causa che fosse sentita: la liberazione. E c’era una credibilità da dimostrare. Il compito venne affidato al generale Vincenzo Dapino e al I Raggruppamento motorizzato: cinquemila uomini provenienti per lo più dalla divisione Legnano, quella che il 9 settembre era stata fermata in Abruzzo a difesa di Vittorio Emanuele III; se fosse stata impiegata contro i tedeschi invece di sciogliere il Regio esercito a Chieti, l’allontanamento da Roma non si sarebbe trasformato in fuga da Pescara. Il Raggruppamento era primo ma non ce n’era un secondo, ed era motorizzato per modo di dire.
Il Regno del sud pressato dagli Alleati aveva dichiarato guerra al Terzo Reich il 13 ottobre, in un modo a dir poco avventuroso a Madrid, e secondo i condivisibili studi di Pietro Pastorelli persino senza la legittimità del diritto internazionale. La cobelligeranza, non alleanza, peraltro peserà poco o nulla al momento della pace di Parigi nel 1947: l’Italia verrà trattata da Paese sconfitto e non ci sarà mai un trattato di pace con la Germania. Già questo spiega molto sulla fragilità della vulgata resistenziale e sul peso politico e internazionale attribuito a sinistra alla lotta partigiana.
Ma nel 1943 c’era un Paese umiliato da riscattare, mentre dappertutto fiorivano forme di resistenza spontanea contro l’occupazione tedesca. Giorgio Bocca liquiderà l’esperienza resistenziale al sud come «difesa della roba»: definizione sbrigativa e ingenerosa, ma non priva di verità. L’importanza della “roba” l’avevano ben presente a Berlino e da subito fornirono alle truppe tedesche un vademecum nel quale era scritto che l’italiano era geloso della sua donna e delle sue cose (la casa, la terra, il bestiame, i raccolti), quindi non andava provocato.
Con l’occupazione tutto questo non valeva più e la reazione agli arbitri fu immediata e violenta, anche nella disorganizzazione e nello spontaneismo. In una società arretrata come quella meridionale, la resistenza era radicata nella storia. Sparare ai tedeschi, accoltellarli, attaccarli se aggrediti, insomma resistere, fu la “naturale” forma di opposizione. A nord il quadro era più composito. La nascita della Repubblica sociale del redivivo fascismo inserì l’elemento nuovo, con un altro esercito che il Maresciallo Rodolfo Graziani voleva nazionale e il Partito fascista che si dotava di ogni genere di milizia politica. Il I Raggruppamento motorizzato venne impiegato al fronte per la prima volta a Montelungo, in una duplice e sanguinosa battaglia, e dimostrò che gli italiani sapevano e volevano battersi. Perla prima volta il tricolore nazionale sventolò accanto a quello degli Stati Uniti, e la stampa americana ne parlò con plauso. Quel segno di riscatto era stato scritto col sangue di 79 morti e 89 feriti. Era il 16 dicembre 1943. Ma c’erano già state polemiche perché al reparto era stato assegnato come stemma lo scudo dei Savoia, e infine si lasciò che chi lo voleva poteva cucirselo e chino farne a meno. Una decina di giorni prima a Casoli, in Abruzzo, l’avvocato socialista e antifascista della prima ora, Ettore Troilo, aveva legato in un patto d’onore alcuni giovani che desideravano battersi contro i tedeschi al fianco degli inglesi.
Era il germe di quell’esperienza unica che va sotto il nome di Brigata Maiella: formazione apartitica, che non fece mai parte del Corpo volontari della libertà (emanazione militare del Comitato di liberazione nazionale), prima e unica unità di volontari armati dagli inglesi grazie all’intuizione del maggiore Lionel Wigram, prima unità autonoma a essere riconosciuta dall’esercito regolare con la sua bandiera di guerra, unica a combattere anche fuori dal territorio di costituzione (arriverà fino ad Asiago), unica a essere decorata di medaglia d’oro al valor militare. Erano e si dichiaravano patrioti, non partigiani, e patriota era il primo grado sul tesserino militare al posto di soldato.
La Banda patrioti della Maiella aveva tesserino dell’esercito cobelligerante (209ª e poi 228ª divisione di fanteria), ma niente stellette al bavero sostituite dal tricolore perché i volontari, tutti repubblicani, non vollero mai giurare fedeltà al re; l’uniforme era quella britannica dell’8ª Armata, e inglese il comando (nella prima fase: dopo giugno 1944 transiteranno nel II Corpo polacco per compensare i caduti di Montecassino).
Esisteva dunque un altro modo di resistere, combattendo di fronte al nemico, per la Patria e non dietro le direttive di un partito. E infatti la Brigata Maiella fu subito messa fuori nella narrazione resistenziale: non faceva comodo alla vulgata partigiana ma paradossalmente neppure all’Esercito italiano nella ricostruzione della storia militare della liberazione. Alla fine del conflitto l’esercito cobelligerante era strutturato su sei Gruppi di combattimento (Cremona, Friuli, Folgore, Legnano, Mantova, Piceno), ma ne esisteva un settimo anomalo, il Gruppo patrioti della Maiella, con 1.500 uomini, quattro compagnie di fanteria con armamento pesante e unità di commandos: i primi a entrare a Bologna liberata il 21 aprile 1945.
Oggi, crollati alcuni miti e nella febbre sinistra di sostituirli con altri, la Brigata è stata riarruolata arbitrariamente tra quelle partigiane, tradendo lo spirito che il comandante Domenico Troilo voleva travasare nella Fondazione per perpetuarne la storia, e contro la volontà degli ex combattenti che si riconoscevano nell’Associazione dei veterani presieduta fino alla morte da Antonio Rullo. Il tenente Gilberto Malvestuto, caposquadra dei mitraglieri, socialista inflessibile per tradizione familiare e di vita, ribadì sempre che lui arruolandosi aveva scelto di essere un patriota, non un partigiano. Non era una sfumatura linguistica, ma di sostanza. Che non poteva essere coperta da “Bella Ciao” intonata dall’Anpi al suo centesimo compleanno, nel 2021, né dalle interpolazioni di Wikipedia che lo smentiscono definendolo partigiano, e immediatamente dopo, smentendosi palesemente, ufficiale della Brigata Maiella.