I militari italiani che si opposero al ricatto nazista

Le storie della Liberazione che la sinistra non racconta: dopo l’8 settembre nacque un movimento spontaneo di disobbedienza civile contro le deportazioni in Germania
di Marco Patricellimercoledì 16 aprile 2025
I militari italiani che si opposero al ricatto nazista
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Prosegue il nostro viaggio per raccontare l’altro 25 aprile, ben diverso dalla narrazione della mitizzata Resistenza. Libero ha scelto di accompagnare i lettori all’appuntamento con la Liberazione raccontando fatti e personaggi che la sinistra ha a lungo sottaciuto per motivi politici.

Sotto il cielo d’Italia molte idee ma confuse dopo il proclama di Eisenhower che ufficializzava la resa dell’Italia e quello criptico registrato all’Eiar da Badoglio. Finita la guerra assieme ai tedeschi, si apriva lo scenario della guerra contro i tedeschi che però
avevano pronti i piani operativi sulla prevista defezione italiana. Già nella serata dell’8 settembre erano divampati i primi scontri. Quanto i vertici militari e istituzionali avessero le idee chiare è testimoniato dall’iniziativa del generale Giacomo Carboni, capo dei servizi segreti e comandante del Corpo d’armata motocorazzato a difesa di Roma, il quale con la mediazione di Giuseppe Di Vittorio aveva fatto incontrare al Grand Hotel di Roma i leader comunisti Antonello Trombadori e Luigi Longo con il suo aiutante di campo colonnello Giorgio Salvi accompagnato dal figlio Guido Carboni, capitano del Regio Esercito. Da quel summit segreto doveva emergere l’intesa sulla distribuzione di armi ai civili disposti a battersi assieme ai soldati.

L'altro 25 aprile: le storie della Liberazione che la sinistra non racconta

C’è un altro 25 aprile, ben diverso dalla narrazione della mitizzata Resistenza. Libero ha pertanto scelto ...

Mossa davvero incomprensibile, considerato che l’Esercito a disposizione di Carboni era tre volte superiore alle due divisioni tedesche in zona, ma che si spiega con l’atteggiamento assurdo del generale nelle ore successive; e nel dopoguerra, quando scanserà le gravi accuse processuali sul suo operato, aderirà al Pci dal quale sarà difeso tramite Ruggero Zangrandi e assumerà posizioni anti Usa e anti Nato.

DERIVA POPOLARE

Comunque sia nella notte tra 8 e 9 Longo e Trombadori, assieme a Guido Carboni, Felix Dessì, e ai militanti comunisti Roberto Forti e Lindoro Boccanera, avevano prelevato moschetti, mitra, pistole e granate dai depositi del Sim caricandoli su camion che erano stati subito intercettati e inseguiti dalla Polizia agli ordini di Carmine Senise che non voleva nessuna deriva “popolare” ai combattimenti. Proprio il 9 Ivanoe Bonomi tirava le fila dei partiti antifascisti raggruppandoli nel Comitato di liberazione nazionale (Cln) con i comunisti Giorgio Amendola, Giovanni Riveda e Mauro Scoccimarro, i democristiani Alcide De Gasperi, Giovanni Gronchi e Giuseppe Spataro, i socialisti Pietro Nenni, Sandro Pertini (rappresentato da Mario Zagari) e Giuseppe Romita, gli azionisti Riccardo Bauer, Sergio Fenoaltea e Ugo La Malfa, i liberali Manlio Brosio (rappresentato da Antonio Calvi), Leone Cattani e Alessandro Casati e i demolaburisti Giovanni Persico e Bartolomeo Ruini.

Un nuovo indirizzo politico su fatti che stavano sfuggendo di mano. All’alba di quel giorno, mentre i tedeschi bruciavano le carte dell’ambasciata di Villa Wolkonsky evacuata dal personale diplomatico, Vittorio Emanuele III, la famiglia Savoia, il Maresciallo Badoglio e i ministri militari prendevano la direzione di Pescara, svuotando così ogni piano di resistenza organizzata ai tedeschi e disinteressandosi della sorte di 82 divisioni, 12 brigate, 2 reggimenti, 6 Gruppi operativi, e 900.000 uomini in Albania, Erzegovina, Jugoslavia, Montenegro, Egeo, Francia meridionale, Corsica.

Quel giorno, escludendo pochi generali, furono i quadri intermedi ad assumersi responsabilità che i capi avevano scansato, parando i colpi tedeschi e sferrandone d’iniziativa: erano gli ufficiali bistrattati dal capo di Stato maggiore Mario Roatta che disprezzava i complementi, buona parte dei quali non avrebbero deposto più le armi riprendendo la lotta in montagna con le unità partigiane. Una resistenza spontanea ma motivata, soffocata dalla forza bruta e dalla demoralizzazione.Il 15 settembre la Wehrmacht documentalmente indicava tre categorie tra i soldati italiani che aveva indotto alla resa in Italia, in Francia e nei Balcani: quelli rimasti fedeli all’Asse e disposti a combattere o a servire nelle unità ausiliarie; quelli che non hanno più intenzione di continuare la guerra; quelli infine che le armi volevano usarle ma contro i tedeschi, combattendo assieme agli Alleati o costituendo bande irregolari. Hitler stesso, il 20 settembre, ordinava che i militari in grigioverde dovessero essere considerati «internati militari italiani» (Imi) sottratti alle tutele delle convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra, con la scusa che non c’era stato di guerra con il Reich e come vendetta perché si sono opposti ai tedeschi. Il solo Maresciallo Erwin Rommel in soli tre giorni ha avviato verso i lager nazisti 82 generali, 13.000 ufficiali e oltre 400.000 soldati, mentre a sud Albert Kesselring ha favorito il “tutti a casa” perché non saprebbe come gestire quella massa. Eppure contro di lui avevano combattuto molto più che contro Rommel a nord.

BOTTINO

Il bottino tedesco era mostruoso ed è contenuto in un rapporto dell’Oberkommando der Wehrmacht del 7 novembre: 51 divisioni totalmente disarmate, e 29 parzialmente; mezzo milione di soldati prigionieri; 34.000 ufficiali; 1.250.000 fucili; 38.000 mitragliatrici; 10.000 cannoni; 15.000 automezzi. Una massa di braccia di lavoratori da sfruttare a costo zero nelle fabbriche e nei campi, e liberare almeno 150.000 operai e contadini tedeschi per arruolarli.

La schiacciante maggioranza dei soldati italiani resistette alle lusinghe del rimpatrio in cambio del giuramento a Mussolini e Hitler, disse di no e pagò con fame, freddo, malattie, schiavismo, vessazioni, arbitri e crudeltà di ogni genere che ne falcidiò le fila. Resistettero come potevano, e non si piegarono. Come i civili che dall’inizio della guerra erano invitati a prestare il lavoro in Germania, in luoghi sicuri e con paghe molto allettanti e molto superiori agli standard italiani, ma sparivano quando leggevano sui bandi la frase «trasferimento in Germania». E infatti il 16 settembre 1943 il comandante supremo dell’Okw, Wilhelm Keitel aveva diramato l’ordine di deportazione coattiva.

FUGGI FUGGI

Fu un fuggi fuggi in tutti i modi possibili e immaginabili, persino travestendosi da donna. Il Sicherheitsdienst di Roma, la polizia politica agli ordini di Herbert Kappler, aveva avvisato Berlino che dal lavoratore italiano si poteva trarre impegno «solo se trattato individualmente e con bontà. In lui le misure coercitive provocano ribellione, impegno soltanto apparente e spirito di sabotaggio».
Quando toccava ai Carabinieri andare a caccia di manodopera, avvisavano per tempo e non trovavano mai nessuno. Palesemente boicottato e quindi fallito, a Roma, il censimento che doveva portare a individuare disoccupati e renitenti alla leva, per costringerli a presentarsi e scegliere se lavorare in Germania, nell’Organizzazione Todt o in Italia per le autorità fasciste, come l’Organizzazione Paladino. Una sequela di imprecisioni, ritardi, smarrimenti delle pratiche burocratiche, errori o mancate consegne della modulistica, volutamente messe in atto, originarono una vasta e pervasiva disobbedienza civile.

Che diventava resistenza armata di puro stampo volontaristico e di spontaneismo, tra militari e civili, come nelle celebrate Quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) e nella misconosciuta rivolta di Lanciano (5-6 ottobre 1943), espressione più genuina della rabbia popolare contro il tedesco invasore. Non c’era ancora né derivazione né saldatura politica, e neppure il partigianesimo.