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Sergio Ramelli, dopo 50 anni all'università è ancora vietato parlare del suo omicidio

La sinistra si è opposta all'incontro che si doveva tenere a all'università di Foggia
di Brunella Bolloli giovedì 27 marzo 2025

3' di lettura

Doveva essere un incontro all’insegna della pacificazione, quello organizzato per lunedì nell’Aula magna dell’università di Foggia con il via libera della Conferenza dei Rettori e il patrocinio del Senato e della Camera. L’incontro, però, non si è tenuto a causa dell’opposizione di una parte della sinistra, della Cgil, di qualche docente refrattario a chiudere i conti con il passato. Il titolo diceva: “Mai più terrorismo - informazione e dialogo verso la riconciliazione e la pacificazione nazionale” e i relatori invitati dall’“Osservatorio nazionale Anni di piombo per la verità storica” avrebbero dovuto parlare di due vittime di quegli anni in cui rossi e neri si fronteggiavano fino a rimetterci la vita, Sergio Ramelli e Benedetto Petrone. Il primo, giovanissimo militante del Fronte della Gioventù di Milano, pestato brutalmente il 13 marzo 1975 da un gruppo di Avanguardia operaia, morirà dopo 47 giorni di coma. Il secondo, anche lui 18enne, iscritto al Partito comunista, finì accoltellato il 28 novembre del 1977 in piazza a Bari, durante un agguato di estremisti di destra.

Una vicenda su cui si indaga ancora. Potito Perruggini Ciotta, presidente dell’Osservatorio, aveva organizzato la giornata all’università di Foggia affinché non fosse un evento di parte. L’idea era di far conoscere agli studenti il dramma di quella stagione di sangue dialogando attorno a due libri: “Sergio Ramelli. Una storia che fa ancora paura”, scritto da Guido Giraudo, già dirigente del Fuan e profondo conoscitore della destra, e “Benedetto Petrone. Storia di una generazione e di un delitto”, di Vincenzo Colaprice, docente specializzato in mappature digitali e interessato a mantenere vivo l’interesse per la storia del movimento operaio e dell’antifascismo. Proprio Colaprice, però, sarebbe stato indotto a rinunciare all’evento dalle pressioni di una parte dell’opinione pubblica locale: Pd, sindacati, collettivi, che hanno cominciato a sabotare il convegno bollandolo come sbilanciato o troppo di destra per una università. Critiche e polemiche hanno costretto gli organizzatori ad annullare, tra le motivazioni anche il rischio di scontri e problemi di ordine pubblico.

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Questo convegno, quindi, non c’è stato e forse non ci sarà mai, nonostante il parterre bipartisan pronto a dare un contributo sulla qualità della ricerca e della didattica in tema di terrorismo e di sicurezza. E nonostante la presenza delle istituzioni accademiche: il rettore, Lorenzo Lo Muzio, la presidente della Crui, Giovanna Iannantuoni. E nonostante avesse detto sì anche Sergio D’Elia: un passato da dirigente di Prima Linea e un presente nell’associazione Nessuno Tocchi Caino, D’Elia avrebbe portato una testimonianza diretta nell’ottica della giustizia riparativa, mentre Perruggini Ciotta, che è nipote del brigadiere Giuseppe Ciotta, medaglia d’oro al valore civile e vittima di Prima Linea, avrebbe ricordato cosa significa vivere la tragedia del terrorismo all’interno della propria famiglia.
In sintesi. Questo esperimento di pacificazione da tenersi in un centro di cultura e sapere quale è un’università è stato stroncato dalle resistenze di chi pure dopo cinquant’anni non ha alcuna voglia di pace perché non accetta l’idea del dialogo se arriva da altri. È proprio attorno alla scelta dell’Osservatorio di organizzare il dibattito in ateneo che si sono levate le critiche più feroci da sinistra e poco è servito che il rettore Lo Muzio spiegasse l’obiettivo di stimolare un dibattito pubblico, costruttivo e pluralista e respingesse con fermezza le accuse di revisionismo storico avanzate da alcuni commentatori. L’ateneo non è un’arena politica, certo, ma un luogo di confronto aperto. Peccato che la strada verso la pacificazione sia ancora lunga.
 

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