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Maestra sexy di Onlyfans, l'educazione illiberale dei sinistri codici etici

Corrado Ocone
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Mai come nel nostro tempo l’etica è al centro dei discorsi pubblici e, di conseguenza, anche dell’azione politica. Non è un caso: la storia ci insegna che si parla di etica quando i cardini morali del mondo vanno in crisi. In un’epoca fluida quale la nostra, i bei tempi dell’“eticità vissuta” dei greci, come la chiamava Hegel, sono a dir poco una chimera. È un dato di fatto, di cui bisognerebbe prendere atto, agendo di conseguenza, cioè rinsaldando con le nostre azioni e l’esempio quella coscienza morale che sembra vacillare. La cronaca ci offre spesso esempi di situazioni controverse.

Proprio di questi giorni, ad esempio, è il caso dell’insegnante di Treviso che rischia il licenziamento per la sua “seconda attività”, che si svolge di notte, a quanto è dato di apprendere, sulle pagine di Onlyfans. Sul caso si sono lette non poche sciocchezze sulla stampa. Prima di tutto la faccenda è interna ad una scuola cattolica, la quale, nella sua piena autonomia, può fare quel che crede. Quanto alle altre scuole, quelle di più diretto dominio pubblico, l’attività degli insegnanti è da sempre regolata da un codice comportamentale, che è altra cosa dai “codici etici” e che è proprio di tutte le amministrazioni pubbliche: dalla polizia ai burocrati fino ai magistrati, una parte dei quali, come è noto, travalica spesso dai comportamenti consoni al ruolo (con grave nocumento della fiducia nella giustizia da parte dei cittadini). Certo, le indicazioni comportamentali possono essere adeguate in base ai tempi (i social fino a una generazione fa non esistevano nemmeno), ma comunque essi non potranno mai assumere, in un’ottica liberale, il carattere rigido e normativo, nella sostanza illiberale, che è proprio dei “codici etici” richiesti dalla parte più politicizzata del corpo docente.

 

 

 

MORALISMO CAPITALISTA
Cosa siano questi codici, non a caso oggi tanto cari soprattutto alla sinistra, lo si può capire facendo un po’ di storia. Di essi si è cominciato a parlare decenni fa in ambito manageriale, finendo poi per essere adottati da molte aziende. Essi rassicuravano i nuovi capitalisti di non aver del tutto tradito gli ideali giovanili coltivati nei campus e, in più, rispondevano alle richieste di una influente opinione pubblica liberal che, in un conato illiberale, voleva imporre le proprie regole di comportamento al “legno storto” dell’umanità.

In sostanza, si trattava di una forma di marketing, alquanto ipocrita, che il premio Nobel Milton Friedman smascherò indicando come unica etica dell’imprenditore quella di fare profitto. Attorno ai “codici etici” proliferò tutto un mercato fatto di advisor, consulenti, aziende di certificazione, e via discorrendo. Man mano che la moda dei codici etici si imponeva in azienda, la stessa politica, in crisi di valori e orfana a sinistra degli ideali falliti, trovò nella regolamentazione capillare dei comportamenti privati una sua propria ragion d’essere. Poco alla volta, la politica ha perciò perso la propria autonomia, affidandosi non solo all’etica, o meglio ad una etica di parte e fortemente orientata dalla cultura woke, ma anche al diritto come braccio armato della sua azione.

 

 

 

I “codici etici” hanno perciò sempre più assunto la forma di una parodossale casistica gesuitica che ha preteso di regolare ogni caso specifico per “mettere le brache al mondo”. Impresa che ha sortito, come unico effetto, la crescita esponenziale del potere della burocrazia e la sensibile compressione degli spazi di libertà individuali. Con il paradosso, solo apparente, di uccidere proprio l’etica, la quale, come ci ha insegnato Kant, nasce e prolifera solo in un ambiente libero, come volontà buona e non come eteronoma adesione a regole preconfezionate. La scuola e uno stato di diritto può agire in un solo modo in questo terreno minato: con l’educazione, attraverso i classici, alla complessità della vita. La conoscenza delle opere di Shakespeare o di Dante vale più di mille trattati di “etica applicata” o delle pretese regolistiche di un “diritto sostanziale”.

 

 

 

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